Che cosa rappresenta
questa visita per il Paese e
per la Chiesa ortodossa?
«Attendiamo con gioia la visita di
papa Francesco per la festa patronale
della nostra Chiesa, la festa di Sant’Andrea,
il primo chiamato tra gli apostoli,
il 30 novembre. Lo scambio delle delegazioni
tra le nostre Chiese per le rispettive
feste patronali testimonia quell’attenzione
e quel rispetto reciproco, fraterno.
Sua Santità visita il nostro Paese,
che come sapete è laico. Vedrà monumenti
simbolo per la nostra nazione,
sia ad Ankara che a Istanbul. Certamente
papa Bergoglio porterà alla nazione
turca un forte messaggio di convivenza
e fratellanza. Questo Paese, in cui il cristianesimo
dei primi secoli ha celebrato
i suoi grandi Concili, ha bisogno di
gesti forti. Anche il Patriarcato ecumenico
attende il giusto riconoscimento
che gli deriva dal suo ruolo all’interno
della Chiesa ortodossa, ma anche dalla
sua storia millenaria. Un riconoscimento
in tal senso potrà essere la riapertura
della Scuola teologica di Halki e la restituzione
di alcune proprietà».
Lei ha incontrato più volte Jorge
Mario Bergoglio: che impressione ne
ha ricavato? E che cosa l’ha colpita di
più di questo Pontefice?
«Fin dal primo incontro per l’intronizzazione
di Sua Santità, ma anche nei
successivi incontri a Gerusalemme, al
Santo Sepolcro e poi in Vaticano, nello
scorso giugno, con Shimon Peres e Mahmoud
Abbas, l’impressione è di estrema
confidenza, di un incontro tra fratelli
che si conoscono da lungo tempo, che
amano incontrarsi. Francesco è un Papa
semplice, non semplicistico. Ha un grande
amore, non bonarietà. L’Oriente ha
molto apprezzato il suo sottolineare di
essere innanzitutto il vescovo di Roma.
Da buon conoscitore dell’Oriente, ci ha
molto colpito il fatto di avere nominato
otto collaboratori, per aiutarlo nelle
grandi decisioni. È un governo sinodale
della Chiesa e non verticistico. Questo
può facilitare molto anche il dialogo teologico
su questo tema».
I cattolici hanno appena concluso
il Sinodo straordinario sulla famiglia.
Per molti è stato una sorta di “mini
Concilio”, la Chiesa è tornata a dialogare
con più forza all’interno e nei
confronti del mondo sui problemi che
riguardano la famiglia. Può spiegare
qual è la vostra posizione circa il matrimonio?
È vero che, sia pur a determinate
condizioni, voi benedite le seconde
nozze?
«Abbiamo seguito con particolare interesse
il Sinodo straordinario sulla famiglia.
Ai lavori ha partecipato come nostro
rappresentante personale l’eminentissimo
Metropolita del Belgio Atenagora.
Il tema della famiglia e le sfide delle nuove convivenze sono temi che interessano
anche la Chiesa ortodossa, pur se
la pastorale, in Oriente, è diversa. Il matrimonio
riflette l’unione tra Cristo e la
Chiesa, fra Dio e Israele. Pertanto è unico,
è un vincolo eterno che neppure la
morte può distruggere. Nella sua natura
sacramentale il matrimonio trasfigura e
trascende sia l’unione carnale che il contratto
legale. Non è il consenso degli sposi
la materia del sacramento, seppur importante,
ma il vescovo, “all’insaputa
del quale nessuno si sposi”, come scrive
sant’Ignazio di Antiochia. Infatti, il sacramento
non ingloba il contratto, ma i
due momenti, quello misterico e quello
giuridico, nella dottrina e nella prassi
della Chiesa ortodossa, restano distinti:
da non separare, ma anche da non confondere.
Come sacramento, però, esso
esige una libera risposta e implica la possibilità
di un rifiuto umano e di un errore
umano. La metanoia (vocabolo greco,
significa: cambiar parere, ndr), cioè la
conversione dall’errore, permette sempre
un nuovo inizio. La Chiesa, seguendo
l’apostolo Paolo, viene così incontro
alla debolezza dei suoi figli e può concedere
le seconde nozze».
Al suo ritorno da Gerusalemme,
dove ha incontrato papa Francesco al
Santo Sepolcro, lei ha annunciato un
importante appuntamento per l’unità
tra cattolici ed ortodossi: ritrovarsi insieme
a Nicea nel 2025, dove nel 325
dopo Cristo è stato celebrato il primo
vero Concilio ecumenico della Chiesa
indivisa. Da oggi ad allora, quali sono
le tappe concrete di avvicinamento?
«Celebrare i 1.700 anni dalla convocazione
del primo Concilio ecumenico
della Chiesa, a Nicea, lì dove esso è stato
celebrato, significa testimoniare al
mondo quanto importante sia il tema dell’unità. I 318 santi padri che si
riunirono insieme, dall’Oriente e
dall’Occidente, avevano come principale
scopo quello di risolvere le divisioni
che si erano introdotte nella Chiesa nascente,
oltre che a definire in modo
chiaro la consustanzialità del Figlio col
Padre, nella Santa Trinità. Ed è proprio
il modello della Santa Trinità che deve
ispirare l’unità delle nostre Chiese. Non
si tratta di un’uniformità, tipica del
mondo globalizzato in cui viviamo, ma
dell’unità nella diversità. Celebrare “insieme”
questa ricorrenza vorrà sottolineare,
oggi come allora, che l’unità del
gregge è secondo la volontà del Signore,
e non un sogno umano. Abbiamo dinanzi
a noi undici anni, non sono molti per
un verso, ma certamente possono essere
anni proficui nel cammino iniziato.
Innanzitutto il dialogo teologico prosegue
anche su quei temi verso i quali abbiamo
delle sensibilità diverse. E se certamente
non raggiungeremo la piena
unità, il dialogo teologico, “in amore e
carità”, farà scoprire frutti che neppure
immaginiamo. Nel frattempo le relazioni
interpersonali tra i capi delle Chiese,
come tra il popolo di Dio, saranno il propulsore
per affrontare tanti temi che affliggono
le nostre Chiese e il mondo secolarizzato.
Insieme dobbiamo parlare
all’uomo di oggi, incapace di vedere in
sé la fiamma del divino. Il cristianesimo
deve rievangelizzare sé stesso per
essere nuovamente una luce gioiosa
nel mondo. Dobbiamo dare speranza ai
nostri fratelli e sorelle che soffrono per
la loro fede. Dobbiamo saper collaborare
insieme, pur con le nostre specificità,
nei grandi temi dell’ingiustizia sociale,
della libertà e della pace, non però come
il mondo vuole, ma come Gesù Cristo
stesso ci ha insegnato. Credo sia proprio
questo affidarsi a Cristo la fonte
dell’ecumenismo di base che papa Francesco
ricorda. E Sua Santità parla al cuore
dell’uomo, parla da vescovo, da pastore.
Queste possono essere tappe concrete
che in questo momento devono avvicinarci
gli uni agli altri».
Che cosa ci unisce?
«Ci unisce la fede apostolica. Non
siamo religioni diverse. Siamo fratelli
che lungo il percorso si sono persi,
ognuno certo di seguire la via indicata
dal Signore. Ma mille anni di storia di
fede, pur tra varie traversie, appartengono
a entrambi. Abbiamo lo stesso Signore,
abbiamo la stessa Scrittura, abbiamo
la stessa antica Tradizione, abbiamo gli
stessi Misteri, veneriamo la Madre di
Dio e i santi, abbiamo sette Concili ecumenici
in comune, abbiamo oggi la stessa
passione per l’unità, per l’incontro, ci
riconosciamo come Chiese sorelle. E le
gioie e il dolore degli uni sono le gioie e
il dolore dell’altro. Per questo ho ritenuto
subito necessario e voluto essere presente
alla gioia della sorella Chiesa
dell’antica Roma, per l’inizio del pontificato
del suo nuovo vescovo. Certamente
era la prima volta della presenza del
Patriarca di Costantinopoli a questo avvenimento,
ma sono segni che non dipendono
dalla nostra pochezza umana,
ma dall’opera dello Spirito Santo che ci
conduce per mano».
Cosa, ancora, ci separa? Come possiamo
ridurre le distanze?
«Se i primi mille anni ci hanno visti
assieme e ci hanno dato un grande bagaglio
teologico comune, ci sono anche
mille anni che ci hanno visti separati e
in cui ognuno ha seguito la sua strada
all’interno della storia degli uomini.
L’Oriente ha visto molti sconvolgimenti,
ma la Chiesa ha cercato di mantenere sempre vivo e inalterato il messaggio
cristiano dei primi secoli, fedele all’insegnamento
evangelico e apostolico. Ci
separa ancora l’ecclesiologia e principalmente
il modo di intendere la diaconia
del vescovo di Roma nella Chiesa indivisa;
ci separano ancora alcuni aspetti
della pastorale e dell’interpretazione
della sacra Tradizione; seppur molto
sia già stato fatto, ci sono ancora delle
difficoltà sulla sensibilità di momenti
storici del passato, ma anche del presente,
come il tema delle Chiese cattoliche
di rito orientale. Dobbiamo insieme
ancora purificare la storia. Le distanze
si riducono con l’impegno, la pazienza,
la preghiera, il reciproco rispetto
e amore e l’incontro».
È realistico aspettarsi una riconciliazione
totale tra Costantinopoli e
Roma?
«È realistico credere in Gesù Cristo,
come Dio e Uomo, nel suo messaggio di
salvezza e nella potenza deificante dei
suoi divini Misteri? È realistico credere
nell’amore di Dio Uno e Trino per l’uomo?
È realistico credere nella Sua morte
e risurrezione? È realistico credere
nella presenza di Dio nella storia
dell’uomo? Sì, è realistico, perché questa
realtà la viviamo ogni giorno nella
divina Eucarestia. Crediamo nella sua
divina Parola. Crediamo nella sua preghiera,
“affinché siano uno”. Allora col
nostro impegno e nei tempi che lui vorrà,
è realistico credere nella nostra piena
riconciliazione».
Se sì, quando pensa che potremo celebrarla,
rendendo grazie al Signore?
«Quando non lo possiamo dire, ma
certamente un giorno renderemo grazie
al Signore, comunicando allo stesso
pane e allo stesso calice».
Anche il mondo ortodosso, in realtà,
è diviso al suo interno: cosa state
facendo per ridurre le distanze e alimentare
il dialogo?
«Bisogna capire la nostra ecclesiologia.
Parlando del mondo ortodosso, l’Occidente
non riesce a comprendere quando
ci riferiamo alle Chiese ortodosse e
alla Chiesa ortodossa. Non si tratta di
un processo di divisione interno, ma di
una unità fondata sulla fede comune,
sull’unica Tradizione, sull’unico insegnamento,
sull’unica Liturgia, nell’unico
Pane e Calice. Allora parliamo di
Chiesa ortodossa. Quando parliamo di
organizzazione amministrativa, allora
parliamo delle Chiese ortodosse. Questa
è la tradizione della Chiesa nascente
e della Chiesa antica. Le nostre Chiese
si sentono parti di un unico corpo organico,
il Corpo di Cristo, e solo il Signore
è il suo capo. Per il buon ordine della
Chiesa, i primi Concili ecumenici hanno
affidato al vescovo di Costantinopoli
il ruolo di presiedere nell’unità, unitamente
ai suoi fratelli capi delle Chiese
locali autocefale. Nel corso della storia,
soprattutto alla fine dell’800 e agli inizi
del ’900, il nazionalismo ecclesiastico è
entrato nel corpo della Chiesa, anche se
il Patriarcato ecumenico, con diversi Sinodi,
ha condannato questo atteggiamento,
il filetismo, come eresia. Questo
atteggiamento è apparso in tutta la
sua gravità al di fuori dei Paesi a maggioranza
ortodossa, nella cosiddetta diaspora,
fino ai nostri giorni. Ma già il nostro
beato predecessore, il patriarca Atenagora,
comprendendo la portata di
questo atteggiamento, ha cominciato a
intensificare le relazioni intra-ortodosse
con le Conferenze di Rodi. Oggi, gli
incontri dei primati delle nostre Chiese
avvengono con regolarità; sono state costituite
le assemblee episcopali in diverse parti del mondo per armonizzare
il lavoro pastorale dei vescovi di
un territorio, appartenenti a Chiese locali
diverse e, a Dio piacendo, dopo lunga
e paziente preparazione, e ancora lavorando
con l’aiuto di Dio, nel 2016 sarà
convocato qui a Costantinopoli il
grande e santo Sinodo della Chiesa ortodossa
per la soluzione di temi di interesse
comune».
Prima l’unità con Roma o con Mosca?
«Questa domanda non è posta correttamente.
Con la santa Chiesa di Russia,
il Patriarcato ecumenico non ha mai
interrotto la comunione. La Chiesa di
Costantinopoli è prima madre della
Chiesa russa, avendo inviato a evangelizzare
quei popoli i santi di Tessalonica,
Cirillo e Metodio; ha fatto crescere la
figlia amata fino a concederle lo status
di autocefalia nell’anno 1448 e il nostro
predecessore di beata memoria, il patriarca
Geremia XI l’ha elevata a Patriarcato
nel 1589. Questa Chiesa figlia e sorella
è in piena comunione col Patriarcato
ecumenico, il quale, durante il periodo
dell’ateismo, ha cercato di aiutarla in
molti modi. Noi stessi l’abbiamo visitata
diverse volte. Tra fratelli possono esserci
dei punti di vista diversi, su temi
non di fede, ma di amministrazione ecclesiastica,
ma questo non tocca l’unità
visibile del Corpo di Cristo. Con l’antica
Chiesa di Roma, invece, la comunione si
è interrotta e quando, a Dio piacendo sarà
ristabilita, non sarà l’unione della
Chiesa di Costantinopoli con quella di
Roma, ma di tutta la Chiesa ortodossa
d’Oriente con la Chiesa d’Occidente»