Matteo va veloce e si vede. Al punto che gli manca il tempo di incontrare le parti sociali, ma non di spiazzarle. La sua è una manovra redistributiva bella e buona, quanto di più a sinistra e sindacalmente corretto si possa immaginare. Mille euro nette all’anno in busta paga ai lavoratori meno abbienti pescando da risparmi da spending review (ma si è capito se saranno 3 miliardi o 7?) e da maggiore tassazione sulle rendite (dal 20 al 26% su conti correnti, conti depositi, azioni e obbligazioni). Detto così, chi a sinistra può dire no? Chi, nel sindacato, può dire un bah?
Così, a guardare i giornali del giorno dopo, si legge il paradosso fatto dichiarazione. Camusso e Bonanni che confessano candidi: non ci ha neanche consultati, ma ha fatto quello che gli avremmo detto di fare. Come dire: meglio che faccia, per discutere c’è sempre tempo. Quasi una concertazione per telepatia, che apre l’era 3.0 del confronto sindacale. C’è stata quella muscolare dell’era Berlusconi (Tremonti e Sacconi). Poi quella in guanti bianchi del professor Monti: incontri contingentati, tempi da thé delle cinque per varare una riforma delle pensioni che non piaceva a nessuno (vedi alla voce esodati).
Matteo non ha tempo, va veloce. Poca etichetta. Non ascolta nemmeno perché sa quel che fa o dice di saperlo. E fa proprio quello che gli avrebbero detto i sindacati. Delle due l’una: o i vecchi riti (incontri, mediazioni, delegazioni, trattative….) era tutta roba inutile oppure oggi, complice la crisi, sono inutili i sindacati. Forse perché la strada è obbligata Forse perché da sempre per un sindacato è più difficile fare politica con un governo amico. Un fatto è certo: il giorno dopo il Renzi-show dei 1.000 euro il sindacato si chiede se essere o non essere. E alla mente torna un certo Tony Blair, che in Gran Bretagna, condannò alla irrilevanza le Trade Unions dopo anni di Tatcherismo. Semplicemente rubando loro parola e mestiere.