Il sergente Sinisa è arrivato al 90°, il destino ha fischiato la fine. Se n’è andato Mihajlovic a 53 anni, dopo tante partite giocate, vinte, perse, allenate e alla fine vissute, «Le uniche giocate all’attacco», contro l’avversario più difficile: una forma di leucemia mieloide acuta che lo aveva colpito nel 2019.
Una battaglia che aveva rafforzato, proprio nei momenti di fragilità, la fama da duro che aveva da sempre. Perché ci vuole coraggio ad ammettere la propria debolezza quando si è l’icona della forza, quando quell’icona la si è anche cavalcata. «Voglio dire a tutti quelli che sono malati di leucemia o di qualche altra malattia grave che non si devono sentire meno forti se non affrontano la malattia come l’affronto io», aveva detto in serbo sua lingua madre, nel corso della conferenza stampa successiva al primo trapianto subito nel 2019, quando era tornato a trovare i suoi ex giocatori a Bologna: «E che non c’è da vergognarsi di aver paura, di piangere, di essere disperati. L’unica cosa da non perdere mai è la voglia di vivere. .. Non mi sono mai sentito un eroe per quello che sto facendo. Solo un uomo, sì forte, con carattere, che non molla mai. Ma sempre un uomo con la sua fragilità. E queste malattie non le puoi vincere solo con coraggio, servono le cure. Passare quattro mesi in una stanzetta senza prendere una boccata d’aria non è facile, è difficile, bisogna essere forti di testa. Paura? Ce l’ho anche io, è normale». Un modo di dire che non si vive per come si è ma per come ti va.
Il suo nome è legato in Italia da allenatore soprattutto al Bologna la sua ultima panchina, da cui viene inelegantemente esonerato nel settembre scorso a poche partite dall’inizio del campionato, dopo aver rifiutato dimissioni di facciata. Roberto De Zerbi, sorpreso dalla guerra mentre allenava lo Shaktar Donetsk, contattato rifiuta di subentrargli per rispetto, a meno di dimissioni.
IN CAMPO E IN PANCHINA
Figlio di madre croata e padre serbo, Sinisa Mihajlovic è nato a Vukovar (Croazia) al confine con la Serbia, allora tutta Jugoslavia, cresciuto a Borovo, Serbia, inizia a giocare a calcio nella squadra locale, a 19 anni passa nel Vojvodina, quindi alla Stella Rossa Belgrado, squadra con cui conquista nel 1991 la Coppa dei Campioni. Nel frattempo è scoppiata la guerra in Jugoslavia. Nel 1992 Mihajlovic arriva in Italia acquistato dalla Roma per 8,5 miliardi di lire. Lì trova, Vujadin Boskov che definirà un secondo padre. Gioca in difesa, ha un sinistro potente, segna una rete in 54 presenze. Solo più tardi alla Sampdoria dove vive, dal 1994, alcune delle sue stagioni migliori, si scopre il fiuto sui calci piazzati. Nel 1998 passa alla Lazio di Sven-Goran Eriksson, dove il fiuto per il gol dal limite rimane e si consolida: il 13 dicembre 1998, riesce addirittura a segnare tre reti su calcio piazzato contro la sua ex squadra blucerchiata. Con la Lazio vince un campionato (2000), due Supercoppe Italiane (1998 e 2000), una Supercoppa Europea (1999), una Coppa delle Coppe (1999) e due Coppe Italia (2000 e 2004). Poi passa all’Inter, dove completa la carriera tra le righe del campo nel 2006, per ricominciare subito oltre la riga bianca, dalla panchina.
Prima vice di Mancini, poi dal 2008 al Bologna, dove porta a casa i punti salvezza prima di un esonero anticipato. Passa a Catania e poi a Firenze e di lì per un anno sulla panchina della Serbia come Ct. Ancora tante panchine, tra queste la Samp, il Milan, il Torino, lo Sporting Lisbona, prima di tornare nel 2019 al Bologna, la sua ultima, per ragioni personali, la più difficile. Ai tifosi per salutarli definitivamente scriverà: «Tanti anni in Italia e la sofferenza vissuta mi hanno addolcito, ma non cambiato del tutto. Ho smussato qualche angolo, ma resto un serbo spesso duro, schietto, brusco: non sempre ho saputo esprimere i miei sentimenti di gratitudine. Magari non so regalare troppe parole dolci, non so lanciarmi in tanti abbracci: ma ho risposto “presente” con il mio feroce senso del dovere, non trascurando nulla del mio lavoro, svolgendo al massimo il mio ruolo, anche nelle condizioni più drammatiche (…) Non sono mai stato ipocrita, non lo sarò neanche questa volta, non capisco questo esonero».
L'UOMO
L’uomo è stato anche controverso, da calciatore si beccò una squalifica sesquipedale per uno sputo ad Adrian Mutu, tempo dopo fece discutere non poco il necrologio alla “Tigre” Arkan, di cui dirà: “Ha fatto cose orrende, ma non rinnego un amico”. Non ha mai nascosto il suo nazionalismo e neppure la nostalgia per la Jugoslavia di Tito. Della guerra ha vissuto la lacerazione anche familiare. Era sposato dal 1995 con Arianna Rapaccioni, ex ballerina e showgirl. Dal matrimonio sono nati cinque figli, ne aveva anche riconosciuto un sesto da una precedente relazione. Nel novembre scorso, quando non si sentiva parlare di lui la moglie aveva pubblicato su Instagram un messaggio evocativo, che rendeva l’idea del momento difficile: «L’amore è qualcosa di eterno, l’aspetto può cambiare ma non l’essenza».