«Lo scopo dei
dibattiti, lo scopo dei testimoni è il discernimento comune del volere
di Dio. Anche quando si vota (come alla fine di ogni sinodo), non si tratta di
lotte di potere, di formazioni di partiti (di cui poi i media con piacere
riferiscono), ma di questo processo di formazione comunionale del giudizio,
come lo abbiamo visto a Gerusalemme. L’esito infine, così speriamo, non è un
compromesso politico su un minimo comune denominatore, bensì questo
“valore-aggiunto”, questo plusvalore che dona lo Spirito Santo, così da poter
dire, a conclusione: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi”». Parla chiaro il
cardinale Christoph Schonborn, ricordando i 50 anni di istituzione del Sinodo nella
sessione pubblica che l’assemblea celebra questa mattina nell'aula Paolo VI.
Al termine di una settimana di ampi dibattiti, il cardinale di Vienna ricorda che «discussioni
accese, liti addirittura, e l’intenso disputare fanno naturalmente parte del
cammino sinodale», ma il modello deve essere quello della Chiesa primitiva,
quello del “Sinodo” di Gerusalemme in cui si consuma una delle dispute più
aspre tra Pietro e Paolo. Ma quando Pietro parla, raccontando l’esperienza dell’agire
di Dio, gli Atti degli apostoli raccontano che «Tutta l’Assemblea tacque».
Essi, spiega Schonborn, «fanno proprio ciò che Papa Francesco ci aveva pregato
di fare nel Sinodo dello scorso anno: Pietro parlò con parresia. E
l’assemblea ascoltò “con umiltà”. La testimonianza di Pietro non viene subito
“messa al vaglio” e criticata minuziosamente in una grande discussione. La sua
parola viene accolta in silenzio e può così essere “meditata nel cuore”».
«Il conflitto va chiamato per nome», spiega il cardinale nella sua lunga
relazione che spiega quello che sta succedendo e che è sempre successo nei
Concili e nei Sinodi. Parla del «metodo»,
Schonborn. Tema forse ostico per i non addetti ai lavori, ma «del tutto
decisivo, se si vuole che il syn-odos abbia un buon esito. I dibattiti sul metodo
del Sinodo non sono questioni secondarie di carattere organizzativo.
Essi contribuiscono in modo molto decisivo a che il syn-odos conduca al fine».
E come già ai tempi di Paolo VI, gli attacchi al metodo del vedere,
giudicare, agire, diventano attacchi al Concilio e a quella apertura al mondo che
è, per dirla con padre Spadaro, «non chiudere le porte all’azione di Dio che non
ha mai abbandonato la storia». La questione vera non è quella della comunione
ai divorziati risposati. E neppure quella delle unioni civili. Il Sinodo non è
stato convocato per scopi prettamente disciplinari. Alla prova c’è il ruolo
della Chiesa nel mondo, il ruolo dei laici, di quel popolo di Dio «santo in
ragione di questa unzione che lo rende infallibile “in credendo”», spiega papa
Francesco citando la Evangelii gaudium, l’esercizio del primato petrino, la
collegialità episcopale, il rapporto tra Santa Sede e Chiese locali, il cammino
ecumenico. Tutti temi che papa Francesco riprende nel suo intervento alla fine
della mattinata.
«Il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa
del terzo millennio», dice Bergoglio. Ribadendo che il fatto che il Sinodo
agisca sempre «cum Petro e sub Petro non è una limitazione di libertà, ma una
garanzia dell’unità». Ed è sotto questa unità che papa Francesco non ha paura
di «decentralizzare». Secondo gli auspici che già furono di Paolo VI – e che
tanti ostacoli hanno trovato per la loro attuazione – oggi Bergoglio torna a
voler ridare fiato alle Chiese locali dicendo chiaramente, con lungo applauso dei padri sinodali: «Non è opportuno che
il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le
problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto
la necessità di procedere in una salutare "decentralizzazione"».
L’obiettivo è quello di una Chiesa che “serve”, dove la piramide del potere
è invertita e «il vertice si trova al di sotto della base», perché è servendo
che ciascun vescovo, «diviene per la porzione di gregge a lui affidata vicarius
Christi». E dove si riconosce il ruolo del popolo di Dio, il suo sensus fidei
che impedisce «di sperare rigidamente tra Ecclesiam docens ed Ecclesia discens,
giacché anche il gregge possiede un proprio “fiuto” per discernere le nuove
strade che il Signore dischiude alla Chiesa».
Porte aperte, ascolto, sguardo positivo del mondo, come era già nel sogno
di Paolo VI. Senza disperare della lentezza dell’attuazione del Vaticano II (Nicea
ha impiegato secoli per essere recepito, aveva ricordato Schonborn). E sapendo
che indietro non si torna, che papa Francesco continuerà a spingere per «una
Chiesa sinodale che è come il vessillo innalzato tra le nazioni, in un mondo
che - pur invocando partecipazione, solidarietà e trasparenza nell’amministrazione
della cosa pubblica - consegna spesso il destino di intere popolazioni nelle
mani di ristretti gruppi di potere».
Una Chiesa che, come auspicava
il Concilio, «cammina insieme agli uomini, partecipe dei travagli della storia»
e che coltiva «il sogno che la
riscoperta della dignità inviolabile dei popoli e della funzione di servizio
dell'autorità potranno aiutare anche la società civile a edificarsi nella
giustizia e nella fraternità, generando un mondo più bello e più degno
dell'uomo per le generazioni che verranno dopo di noi».