Monsignor Roberto Repole, 56 anni, arcivescovo di Torino. Tutte le fotografie di questo servizio sono dell'agenzia Ansa.
Sarà un evento dal sapore conciliare. Parola di intenditore. Monsignor Roberto Repole, arcivescovo di Torino, è uno dei cinque delegati al Sinodo che si svolge a Roma, tra il 4 e il 29 ottobre, eletti dalla Conferenza episcopale italiana (Cei) insieme con monsignor Mario Delpini, arcivescovo di Milano, monsignor Domenico Battaglia, arcivescovo di Napoli, monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, e monsignor Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara.
Raffinato teologo, abituato a calibrare bene parole e pause, quando (ancora a metà settembre) gli si domanda quanto sia corretto dire che il Sinodo si avvicini a un Concilio risponde tranchant: «Per certi aspetti è vero. Il Sinodo è infatti figlio del Vaticano II. Il 14 settembre 1965 Paolo VI annunciò l’ormai prossima nascita del Sinodo dei vescovi. L’indomani mattina, il 15 settembre 1965, all'inizio della 128ª Congregazione generale, monsignor Pericle Felici, Segretario generale del Concilio comunicò che era stato promulgato il motu proprio Apostolica sollicitudo, con il quale il Sinodo veniva ufficialmente istituito. Si volle creare insomma un organismo che aiutasse il Papa nel governo della Chiesa e tenesse in qualche modo viva l’esperienza collegiale maturata nel corso del Vaticano II». Attenzione, però, ammonisce monsignor Roberto Repole: «Sinodo e Concilio rimangono in ogni caso realtà diverse tra loro».
Qualche dettaglio in più? «Il secondo è più lungo e, senza nulla togliere alla legittimazione del Sinodo, più rappresentativo. Tra l’11 ottobre 1962 e l’8 dicembre 1965, i padri conciliari che parteciparono almeno a un periodo dei lavori furono 3.058. A dar vita al Sinodo, discutendo di un tema e solo di quello, sono delegazioni necessariamente più ristrette. Contando tutti coloro che a vario titolo arriveranno a Roma per la XVI assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi, si arriva a 464 membri. Di questi, quanti, come me, risultano eletti dalle Conferenze episcopali nazionali e approvati dal Papa sono 169 in tutto: 44 dall’Africa, 47 dalle Americhe, 25 dall’Asia, 48 dall’Europa e 5 dall’Oceania. Si tratta in altre parole di assemblee differenti per natura, composizione e scopi». Circa gli esiti l’arcivescovo di Torino invita a leggere e rileggere il tema: Per una Chiesa sinodale, comunione, partecipazione e missione. «Rifletteremo su come concepiamo le comunità dei credenti e su come viviamo la fede, oggi. La comunione è minacciata da crescenti dosi di individualismo e di narcisismo. Troppo “io”, poco “noi”; è così dentro e fuori le parrocchie. La partecipazione va allargata: più laici e più donne, si ripete giustamente. La missione va rimessa a fuoco. Dobbiamo riscoprire una verità tanto semplice quanto antica: tutti i battezzati, e non solo preti, frati, suore o vescovi, sono chiamati ad annunciare la Salvezza. Spesso, invece, sono proprio i luoghi normalmente abitati da cristiani laici quelli in cui il Vangelo è più taciuto».
Non si tratta solo di sperimentare linguaggi nuovi. «Dobbiamo domandarci come ripensare la Chiesa dentro una cultura, la nostra, segnata dal nichilismo, dalla secolarizzazione (che comporta anche l’economicismo imperante che trasforma tutto e tutti in funzioni, in strumenti), dalla digitalizzazione che può portare alla de-realizzazione delle persone, nonché da uno strutturale pluralismo religioso». «Bisogna riprendere confidenza con ciò che è essenziale», conclude monsignor Roberto Repole, «cioè la consapevolezza che non siamo figli del caos e che il nulla non è il nostro destino, che non esistono luoghi o situazioni disabitati dalla Grazia, che siamo chiamati ad attingere a una bellezza plurale, in cui la varietà di lingue, culture, storie e fedi è ricchezza, non ostacolo. La Chiesa corrisponde al dono ricevuto dal Signore non solo ringraziandolo e vivendo la fraternità al suo interno, ma rendendo disponibile quel dono a tutti con l’annuncio, la testimonianza, la cura di coloro che nella storia non sono ospitati, ma emarginati. Ecco, il Sinodo che immagino io è ben descritto da un vecchio titolo dell’Osservatore Romano: un tempo di speranza per chi non ha tempo per Dio».