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lunedì 28 aprile 2025
 
Sinodo
 

Divorziati risposati: coscienza e autorità a confronto

16/10/2014  Il punto a pochi giorni dalla conclusione dei lavori. Le scuole di pensiero che alimentano il dibattito odierno. Chi invoca la misericordia e chi ribatte che non si può buttare a mare la verità evangelica circa il matrimonio. Le varie tappe storiche, dal Concilio ad oggi. Passando per la Familiaris consortio di Giovanni Paolo II.

Il dibattito al Sinodo sulla questione della comunione ai divorziati risposati è in realtà un confronto tra coscienza e autorità. E’ questo infatti il filo rosso che ha percorso le discussione sull’argomento almeno dal 1973 ad oggi, nonostante il pronunciamento netto e contrario di un Papa, cioè Giovanni Paolo II nella “Familiaris consortio” e più volte della Congregazione della dottrina della fede. Il presidente dei vescovi polacchi, il vescovo di Poznan mons. Stalisaw Gadecki non ha esitato a dire al programma in lingua polacca della Radio Vaticana che se fossero approvare le indicazione contenuto nella relazione di medio termine del Sinodo ci si “allontana dall’insegnamento di Giovanni Paolo II”. Qui sta il punto centrale di tutta la questione, perché Giovanni Paolo II nel 1981 scrisse a chiare lettere che un’ipotesi del generale non poteva essere ammessa.

Ma per capire bene come stanno le cose bisogna fare qualche passo indietro. Nel 1973 una lettera confidenziale inviata a tutti i vescovi dalla Congregazione della dottrina della fede ha tentato di dare qualche indicazione su una materia controversa. In quegli anni era ancora in vigore il vecchio Codice di diritto canonico del 1917 nel quale i divorziati cattolici che si erano risposati civilmente erano considerati “ipso facto infames” e “publice indigni” ed erano scomunicati. Il canone che lo prevedeva era il 2356. Con il nuovo Codex le definizione sparisce, ma resta la proibizione all’Eucarestia. La definizione del vecchio Codice era criticata da molti soprattutto nella Chiesa degli Stati Uniti. E così si era diffusa una prassi pastorale, che in determinate situazioni, esaminate caso per caso e a fondo da sacerdoti competenti, si potesse arrivare alla assoluzione per i divorziati risposati cattolici, che venivano quindi ammessi a ricevere la Comunione.

Nel 1973 la lettera confidenziale dell’ex-sant’Uffizio, che allora era presieduto dal cardinale Franjo Seper confermava la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio, ma sul punto dei divorziati ammetteva che si potesse far ricorso alla “probata praxis Ecclesiae in foro interno”, cioè il ricorso alla coscienza del fedele, sotto la guida di un sacerdote, nei casi in cui fosse in coscienza convinto della nullità del precedente matrimonio, ma non potesse dimostrarlo attraverso fatti concreti in tribunale ecclesiastico. Ma le parole della lettera lasciavano aperti dubbi e interpretazioni di natura teologica e quindi dogmatica oltre che pastorale. Al Sinodo ordinario sulla famiglia del 1980, il cui relatore era l’allora arcivescovo di Monaco di Baviera Joseph Ratzinger, l’argomento venne affrontato con passione e vennero elaborate diverse proposizioni. Ma Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio non ne tiene conto e ribadisce il divieto.

Nel 1983, come si è detto, il nuovo Codex cambia tono, ma conferma che coloro i quali “perseverano ostinatamente in peccato grave manifesto” non possono accostarsi all’Eucarestia (can. 915). E la stessa cosa viene ripetuta nel Codex delle Chiese orientali. Ciò che scrive il papa nella Familiaris Consortio viene confermato anche nel catechismo della Chiesa cattolica del 1992. Eppure il dibattito e la richiesta di un cambiamento continua e i molti sacerdoti continuarono nella prassi di dare l’assoluzione e permette di accostarsi al sacramento. Nel 1993 i vescovi della Renania in Germania pubblicarono un documento nel tentativo di creare una prassi unitaria. Il testo venne scritto da mons. Kasper, vescovo di Stoccarda e da mons. Lehmann vescovo di Magonza. Spiegavano che non è possibile una ammissione generalizzata, ma ammisero la possibilità caso per caso, cioè dopo un colloquio con un sacerdote prudente ed esperto in grado di illuminare la loro coscienza.

L’iniziativa dei vescovi tedeschi fu accolta positivamente da molti vescovi, ma altrettanti chiesero alla Congregazione della dottrina della fede, presieduta dal cardinale Joseph Ratzinger, un chiarimento. La discussione tornò a farsi ampia e molti teologi chiesero un mutamento della dottrina e della disciplina. La Congregazione della dottrina della fede il 14 settembre 1994 pubblicò una “Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica circa la recezione della comunione eucaristica da parte dei fedeli divorziati risposati”, che  ribadiva la dottrina e la prassi della Chiesa e chiudeva qualunque possibilità di cambiamento. Le indicazioni della Lettera al punto 5 sono chiarissime e rimandano alla Familiaris Consortio di Karol Wojtyla: “La struttura dell’esortazione e il tenore delle sue parole fanno chiaramente capire che tali prassi, presentata come vincolante, non può essere modificata in base alle differenti situazioni”. Quindi nessuna apertura, a meno che i coniugi non vivano astenendosi dai rapporti sessuali e purché poi vadano in chiese dove non sono conosciuti.

Ma dal momento che la discussione continuava Giovanni Paolo II fece pubblicare dalla Libreria Editrice vaticana nel 1998 un  libro “Sussidio per i pastori” sulla materia, preparato dalla Congregazione della dottrina della fede, con diversi contributi tra cui uno del cardinale Ratzinger, il quale ad un certo punto scrive: “L’indissolubilità del matrimonio è una di quelle norme che risalgono al Signore stesso e pertanto vengono designate come norme di diritto divino. La Chiesa non può neppure approvare pratiche pastorali, ad esempio della pastorale dei sacramenti, che contraddirebbero il chiaro comandamento del Signore. In altre parole: se il matrimonio precedente di fedeli divorziati risposati era valido, la loro nuova unione in nessuna circostanza può essere considerata come conforme al diritto e pertanto per motivi intrinseci non è possibile una recezione dei sacramenti. La coscienza del singolo è vincolata senza eccezioni a questa norma”.

Né vale il ragionamento della misericordia, che era già stato fatto al Sinodo dei vescovi sulla famiglia del 1980. L’allora prefetto dell’ex-Sant’Uffizio sottolinea che il Magistero “non può essere annacquato per supposti motivi pastorali, perché esso trasmette la verità rivelata”. E cita l’enciclica Veritatis splendor di Giovanni Paolo II che “ha chiaramente respinto le soluzioni cosiddette pastorali che si pongono in contrasto con le dichiarazione del Magistero”. Ratzinger respinge anche l’obiezione che “il linguaggio dei documenti ecclesiali sarebbe troppo legalistico” e che “la durezza della legge prevarrebbe sulla comprensione per le situazioni umane drammatiche” e commenta: “Oggi c’è il grande pericolo di compromettere la verità in nome della carità”.

E’ sulla base di queste motivazioni che i rigoristi al Sinodo hanno respinto ogni apertura e hanno contestato la relazione del cardinale Erdo. I favorevoli, tra le altre argomentazioni, hanno portato nel dibattito esempi di pronunciamenti del Magistero che sono state superati, per esempio quelle sulla libertà religiosa prima del Concilio e sul modernismo. Se alla fine del percorso l’anno prossimo si cambierà sarà davvero una grande svolta per la Chiesa, anzi un’altra grande svolta, come è accaduto sempre nella sua storia bimillenaria.

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