Niente da fare. La Siria è un caso disperato, perfino per un diplomatico di lunga esperienza come Kofi Annan. L'ex segretario generale delle Nazioni Unite e premio Nobel per la pace ha detto basta, ha gettato la spugna, si è dimesso dall'incarico di inviato speciale dell'Onu e della Lega araba a Damasco. La diplomazia è collassata. Cinque mesi di tentativi andati a vuoto, di trattative frustranti per cercare di mettere fine al massacro siriano.
Il piano in sei punti creato da Annan per portare al tavolo della conciliazione Governo e opposizione è fallito, di fatto non è mai stato neppure applicato: il primo punto, che imponeva il cessate il fuoco, era stato seguito soltanto nei primi giorni, poi più niente, tutto come prima e, anzi, sempre peggio. Ma Annan afferma che il piano, comunque, resterà. Magari il suo successore, chiunque sia, tenterà di farlo applicare con un approccio diverso dal suo.
A Ginevra, di fronte ai giornalisti, l'ex segretario generale dell'Onu ha spiegato le motivazioni del suo ritiro indicando precise responsabilità: l'intransigenza del Governo di Damasco e il suo continuo rifiuto di applicare il piano in sei punti; la crescente militarizzazione della campagna condotta dall'opposizione; ma anche le divisioni interne alla comunità internazionale, la mancanza di unità all'interno del Consiglio di sicurezza dell'Onu.
Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon ha avviato le consultazioni per designare il nuovo inviato. Ma intanto in Siria continua senza tregua la mattanza: a Damasco, Aleppo (il fronte più violento), Homs, Hama e altre città prosegue il bagno di sangue con sempre nuove escalation di violenza. La Fao ha lanciato un allarme: tre milioni di persone hanno urgente bisogno di cibo e aiuti. Ma l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati (Unhcr) ha denunciato che gli aiuti umanitari non sono riusciti a entrare ad Aleppo a causa dell'assedio militare.
La strada verso una soluzione pacifica del conflitto siriano sarà ancora molto lunga, tortuosa e in salita. In questi giorni è giunta la notizia, riportata dalla Cnn, che il presidente americano Obama ha autorizzato il sostegno degli Stati Uniti ai ribelli siriani: l'ordine segreto permette azioni della Cia e di altre agenzie di intelligence a supporto dell'opposizione.
La decisione della Casa Bianca ha un tono un po' paradossale. Come succede in tutti i Paesi del Medio Oriente, anche le forze armate siriane (320 mila uomini, bene armati dalle forniture della Russia) non sono in grado di confrontarsi con le vere potenze militari del globo (Usa, Gran Bretagna, Francia, Israele) ma sono più che attrezzate per stroncare nel sangue una ribellione civile. Se le forze anti-Assad sono oggi in grado di tenere l'esercito siriano in scacco ad Aleppo per giorni, come sta succedendo, vuol dire che di interventi esterni di supporto alla ribellione ce ne sono già stati molti, e di non poco conto.
Israele, Turchia, Gran Bretagna, gli stessi Usa sono i Paesi più indiziati, per ragioni politiche e geografiche. Il fatto che Obama ora pubblicizzi un intervento che, con ogni probabilità, c'è già stato, e proprio in coincidenza con le dimissioni di Kofi Annan, potrebbe voler dire non che gli Usa non hanno "le mani in pasta" da tempo ma piuttosto che ritengono il crollo finale di Assad ormai prossimo. Annunciando l'arrivo della Cia, Obama sembra piuttosto avvertire gli alleati: per il dopo, ci siamo anche noi.