«È sbagliato parlare di guerra civile. In Siria è in corso una guerra di liberazione. La guerra civile presuppone uno scontro tra diverse anime della società. Non è così: l’opposizione siriana comprende l’intero puzzle sociale». Shady Hamadi è nato 24 anni fa a Milano da madre italiana e padre siriano, dissidente politico, ex esponente del Partito nazionalista arabo, costretto all’esilio. Studente di Scienze politiche, nel 2011 Hamadi ha scritto un libro, Voci di anime (edito da Marietti); a 18 anni ha scelto di diventare musulmano e oggi è una delle figure più rappresentative dell’opposizione siriana in Italia.
Recentemente il giovane scrittore ha lanciato un appello agli italiani: esporre un fiocco nero in segno di lutto per la Siria, a dimostrazione della sensibilità nei confronti della tragedia che si sta consumando nel Paese mediorientale. «La gente ha in mente ciò che è avvenuto in Libia e per questo ora ha molto riserbo verso ciò che sta accadendo nel Paese mediorientale», commenta Hamadi. «La Siria in questo momento è orfana del mondo: non dovevamo accorgerci della tragedia solo undici mesi dopo dallo scoppio delle rivolte».
Una parte della famiglia di Hamadi è originaria di Talkalakh, cittadina a 50 km da Homs, al confine con il Libano. «Lì la situazione ora è di stallo. Ma tempo fa, come denunciato anche da Amnesty international, sono stati perpetrati crimini contro l'umanità. Nell’ultimo rastrellamento, a dicembre, un mio cugino è stato arrestato mentre sta afumando una sigaretta fuori da casa sua. È riuscito a chiamare una sola volta con un cellulare. Noi pensiamo che fosse stato "imboscato" fra i prigionieri oppure che avesse semplicemente corrotto una guardia: l'ipotesi più probabile visto l'alto tasso di corruzione in Siria. In quella telefonata ha detto di non sapere dove fosse e che i soldati gettavano l’acqua gelata addosso ai loro corpi seminudi, li bastonavano e davano loro pochissimo da mangiare. Ora non sappiamo più niente di lui».
Un’altra parte della famiglia di Hamadi vive a Homs, proprio in uno dei quartieri più colpiti dai bombardamenti: «Mia nonna ha raccontato che alcuni parenti sono morti nel crollo di un palazzo centrato da un missile. Mesi fa, poi, mio zio è stato minacciato da uomini dei servizi segreti siriani a causa del mio attivismo in Italia. Gli hanno detto: "Se tuo nipote non smette di parlare lo facciamo tacere noi". Con lui non sono ancora riuscito a comunicare, ha paura di rispondere al telefono».
Hamadi sa bene di essere ben conosciuto e controllato dal mukabarat
(i servizi segreti siriani); sa che al momento non può entrare in
Siria. Il Paese che ha potuto visitare per la prima volta solo nel
2001 (perché fino al 1997 a suo padre era negato il ritorno in patria).
«Ma il vero viaggio di conoscenza per me è stato nel 2009, quando ho
vissuto per otto mesi a Damasco: là studiavo arabo e insegnavo italiano
ai siriani. In un primo tempo ho abitato nel quartiere cristiano. Poi
sono
andato a vivere nel quartiere del presidente Assad, a breve distanza da
lui. Una volta a una mia studentessa ho proposto di scrivere temi su
cosa significassero per lei libertà e democrazia. In seguito le ho
proposto di creare una rivista per così dire clandestina da scambiarci
fra di noi. Ma ancora prima di attuare il progetto, un giorno gli uomini
dei servizi segreti siriani sono venuti a bussare alla mia porta e
hanno chiesto le mie generalità».
Riguardo a suo padre, lo scrittore italo-siriano dice: «E' molto fiero del mio attivismo. Lui, da dissidente, subì le torture con i cavi elettrici e le bastonate.
Esiliato fino al 1997, non ha potuto assistere al funerale di suo
padre. Il suo sogno è tornare di nuovo in Siria, riabbracciare sua madre
e andare con lei a visitare la tomba di mio nonno. Una volta che tutto
sarà finito io probabilmente non avrò riconoscimenti né in Italia né in
Siria, riprenderò la mia normale vita di studente. Ma sarò orgoglioso di
avere compiuto il mio dovere verso la Siria».
«Le notizie che arrivano dalla Siria sono frammentarie e non consentono di farsi un’idea precisa della situazione generale del Paese. Ma, anche qui, come negli altri Paesi della primavera araba, i primi informatori sono i giovani, grazie a Internet. A complicare ulteriormente la comprensione contribuisce anche il mosaico di identità sociali e religiose che costituisce, comunque, una delle grandi ricchezze culturali della Siria». A parlare è Stefano Minetti, torinese, dottore di ricerca in Filosofia all'Università Cattolica di Milano con specializzazione in mondo arabo e islamico contemporaneo, vissuto al Cairo, a Beirut e a Damasco e, in questi giorni, in contatto telefonico con vari siriani in diverse parti del Paese per farsi un'idea più chiara della situazione locale.
«Parlando con i miei contatti là», racconta Minetti, «emerge che il Paese è diviso tra zone sotto lo stretto controllo governativo e zone in cui predominano le forze di opposizione. La capitale e Aleppo restano in mano al Governo. A Damasco si percepisce chiaramente un clima di insicurezza, rafforzato dalla presenza di posti di blocco operati da reparti di polizia in tenuta antisommossa e da militari. Anche l’area tra il Mediterraneo e le città di Homs, Hama e Aleppo, confinante a Sud col Libano e a Nord con la Turchia, è sotto il controllo governativo. Qui si percepisce una "quasi normalità":servizi che funzionano, uffici aperti e lavoro quotidiano. La regione è caratterizzata dalla presenza delle principali minoranze religiose del paese, tra cui l'alawita, a cui appartiene lo stesso presidente, e che caratterizza quindi la regione come la vera e propria roccaforte del potere politico della famiglia Assad.
A Homs e Hama, dove è maggiore la presenza di forze d'opposizione al regime, si avverte invece più forte la guerra: lì non sono riuscito a raggiungere nessuno dei miei contatti. La zona sembra tagliata fuori dalle comunicazioni».
Il clima politico, spiega ancora Minetti, è confuso, la sicurezza
carente: il livello di violenza e criminalità è aumentato. «La
partecipazione della popolazione civile alla guerra, comunque, è
contenuta, probabilmente per l’incapacità di decidere per quale fazione
optare. Infatti, al di là delle appartenenze comunitarie e religiose, il
quadro complessivo rimane molto frammentato e incerto».
Quanto al futuro, «molte persone, tra cui alcune di quelle con le quali
ho parlato, continuano a sperare in una soluzione pacifica e politica al
conflitto, che ricomponga l’unità nazionale sotto la presidenza di
Bashar el-Assad, piuttosto che sotto l’egida di altre forze interne di
coalizione, benché questa ipotesi appaia meno probabile. In generale è diffusa l’ostilità verso l’ipotesi di un intervento straniero, considerato un’indebita ingerenza
in una delicata fase della vita del Paese. Molti siriani sono coscienti
del delicato ruolo della Siria, costretta - suo malgrado - a essere
teatro di un conflitto regionale che vede contrapporsi gli interessi di
Paesi stranieri: la tensione tra Stati Uniti e Russia, uno dei
principali alleati di Assad; quella politica e culturale tra Turchia e
Iran;ma anche la tensione più nascosta ma forte tra Paesi sunniti del
mondo arabo (Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti in primis) e il
modello sciita rappresentato dall’Iran».
A Homs, la città roccaforte dell’opposizione siriana, la più colpita dalla repressione, si sta consumando una crisi umanitaria. Lo denuncia l'organizzazione Amnesty International, che monitora la situazione in Siria grazie alla rete di contatti con attivisti locali a Damasco e altre città. «Nel momento in cui si compiono ombardamenti in zone densamente abitate sitratta di crimini contro l’umanità», commenta il portavoce di Amnesty Italia Riccardo Noury.
«Non siamo tra coloro che sostengono un intervento in nome dei diritti umani, come quello avvenuto in Libia. Già da molto tempo noi di Amnesty abbiamo chiesto di porre un embargo completo sulle armi destinate alla Siria (sappiamo che di recente sono arrivate armi dalla Russia), di deferire la questione siriana alla Corte penale internazionale e di congelare i beni patrimoniali del presidente Assad e dei suoi collaboratori. Ma, ad oggi, nulla è stato fatto».
Come spiega il portavoce, fino a qualche tempo fa Amnesty aveva due missioni lungo il confine della Siria con la Turchia e tra Siria e Libano. Oggi, l'organizzazione non è più presente sul territorio, ma fa affidamento sul monitoraggio operato da una serie di attivisti siriani che operano come fonti attendibili. «L'attivismo locale in Siria è molto sviluppato. Da parte dei giovani c'è molta coscienza e partecipazione. La mia impressione è che, a differenza di ciò che accade in Iran dove c'è un controllo pressante sui social network, le forze di sicurezza siriane abbiano ancora una formazione vecchio stampo, basata sullo stile sovietico: ancora non capiscono bene, quindi, come contrastare il dilagare dei social media. Prova ne sarebbe la grande quantità di notizie e di filmati che arrivano dalla Siria, anche se non si può dire che questi ultimi siano tutti autentici. A un certo punto la Siria ha cercato anche di sollecitare aziende europee alla cooperazione per creare dei sistemi di filtraggio e di sicurezza; ma ha ricevuto un rifiuto».
Una vita spesa in Medio Oriente. A Betlemme, poi in Egitto, da quasi un decennio in Siria. Padre Giuseppe Nazzaro, vescovo di Aleppo, in convalescenza nella sua natìa Irpinia, ascolta le grida di dolore che
arrivano dalla sua città d'adozione, non se ne dà pace, non nasconde le
sue preoccupazioni, per il presente e il futuro. Pensa
ad Aleppo - colpita pochi giorni fa da un attentato -, non scorge le radici dell'odio: «Piango per la mia
Aleppo, piango per tante vittime innocenti: non ci sono giustificazioni
e rivendicazioni che tengano di fronte a questa tragedia. Aleppo è da
sempre una città tranquilla, una città libera dove si pensa al
bene del popolo, un luogo in cui convivono senza problemi tante
differenti confessioni religiose. Lì è la prima volta che accade
qualcosa del genere».
Legge, ascolta, s'interroga: «Un colpo al cuore,
ma anche tante domande che albergano la mia mente: il venerdì
in Siria le scuole sono chiuse, come mai tutti questi bambini
morti? Domanda a cui non so dare una risposta. Ma nessuna
persona di buon senso può accettare eventi del genere, nessuno può
sopportare che muoiano persone senza alcuna colpa: sono figli di Dio».
Il Medio Oriente è esploso, ora i fuochi della
rivoluzione pervadono la Siria. Rivolte, rappresaglia, morti. E un
futuro nebuloso: «Senza una politica chiara da parte
dell'Occidente, che a buona ragione può essere definito il padrone del
mondo, non si giungerà mai a una pacifica democratizzazione. L'Occidente
mi pare badi solo ai suoi interessi economici, senza pensare
davvero al bene della gente. Non si può rischiare che la Siria
diventi un altro Iraq».
O, magari, un altro Egitto: «Ecco,
faccio una domanda: cosa si è ottenuto in Egitto? Nulla. Deposto
un dittatore, comanda l'esercito e avanzano gli integralisti». Con i
rischi che ne conseguono, per le comunità cristiane: «Che il
dopo-Mubarak in Egitto sia stato caratterizzato da un aumento
degli attentati anti-cristiani è sotto gli occhi di tutti. In
Siria, tranne qualche episodio isolato, la convivenza è stata sempre
serena, soprattutto ad Aleppo. Mi chiedo cosa potrà accadere in
futuro: i timori sono tanti».
Ivo Romano