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lunedì 29 maggio 2023
 
 

Social forum, cose dell'"altro mondo"

09/02/2011  Quest'anno si ritrova a Dakar, in Senegal. Da dieci anni (il primo appuntamento fu nel 2001, a Porto Alegre, in Brasile), si ragiona sullo stesso tema: "un altro mondo è possibile".

Dal nostro inviato.

Dakar, Senegal

Forse c’è qualcosa da rivedere, perché la formula non funziona più. A dieci dal primo appuntamento il Social Forum Mondiale (il primo si svolse a Porto Alegre, in Brasile, nel gennaio 2001), l’assemblea dei movimenti e della società civile di tutto il mondo, una sorta di kermesse variopinta, a metà tra una fiera di prodotti tipici e un palcoscenico di analisi intrecciate spesso convulsamente e senza ordine, mostra la sua fatica e molte ruvidezze. Quest’anno a Dakar sono presenti oltre 1200 organizzazioni di 132 Paesi, la maggior parte africani. Il Forum si svolge nella grande campus dell’Università, ma le attività dell’ateneo non sono state interrotte. Così nei viali polverosi è venuta su una sorta di baraccopoli dell’alternativa dove tra la sabbia e la polvere ogni giorno vanno in scena 300 dibattiti su ogni argomento che ha a che fare con lo slogan ormai tradizionale: “Un altro mondo è possibile”.

   Il Forum dovrebbe proporre un bilancio di quanto è accaduto nell’economia mondiale e indicare nuove forme di partecipazione nella finanza e nella cultura, per la giustizia nello sviluppo e scovare buone pratiche che correggano i comportamenti personali, ma anche sociali e politici, quindi istituzionali, i quali portano alla crisi variamente declinate. Al centro dell’analisi da dieci anni c’è la globalizzazione e i modo con cui vengono declinati (o non declinati) tutela dei diritti e interdipendenze. Ma se un Forum che assomigliava più ad una festa che ad seminario di studio poteva andare bene all’inizio dell’avventura, quando una società civile globale si affacciava sulla scena, e rispondeva anche con qualche sberleffo al Forum economico dei ricchi riuniti tra le nevi svizzere di Davos, oggi la crisi e l’alternanza sono materie da trattare con più rigore di una kermesse di colori. Il primo Social Forum fu organizzato dalle associazioni della società civile brasiliana a Porto Alegre. Poi ha girato per il mondo tornando per tre volte in Brasile.

   Forse avrebbe bisogno di una sede stabile, simbolica, come è la svizzera Davos per i “capitalisti” e tralasciare la formula della fiera. Dovrebbe coinvolgere centri di ricerca che selezionino informazioni e producano analisi  non convenzionali. Se rimane l’attuale formula “movimentista” il Forum è destinato a sparire. La copertura dei grandi media è sparita. E non si può attribuire la responsabilità solo ad essi. Sono le reti più grandi e le Ong più strutturate non solo per quello che fanno, anche per quello che pensano, che potrebbero far tornare l’interesse dei media, se il Forum diventasse un appuntamento annuale che riunisce in un numero ristretto di sessioni la società civile mondiale, nelle sue espressioni più rilevanti. Oggi non è più nemmeno il red carpet dei leader alternativi.

Dal nostro inviato.

Dakar, Senegal

La rete internazionale della Caritas e le commissioni Giustizia e pace di molte conferenze episcopali hanno contribuito fin dall’inizio ai lavori del Social Forum Mondiale. Lo slogan “Un altro mondo è possibile” è anche una bella sintesi dell’impegno dei cristiani sulla base degli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa. A Dakar Caritas internazionalis ha puntato l’attenzione sulle migrazioni e sui cambiamenti climatici che ormai provocano ondate di nuovi rifugiati, con cui il pianeta dovrà fare i conti: 200 milioni di gente che emigra a causa dei cambiamenti climatici previsti entro il 2050. Nel 2008 sono stati 20 milioni. Le previsioni avvicano che numero dei rifugiati “climatici” (o “ambientali”), adesso pari al 10% del totale, supererà quello dei rifugiati per guerre o violazioni dei diritti umani. Sono 2 miliardi le persone a rischio perché  dipendono da ecosistemi fragili. Le cifre le ha illustrate Christine Campeau, di Caritas internazionalis, nel seminario su “Migrazioni forzate e cambiamenti climatici”. All’Onu si discute se includere o meno i rifugiati ambientali nel protocollo del Palazzo di Vetro per i rifugiati. Alcuni Paesi temono che una presenza così massiccia possa ridurre il livello generale di protezione ed assistenza. Ma la comunità internazionale, ha auspicato Christine Campeau “dovrebbe farsi carico dell’assistenza e della riduzione del numero dei rifugiati, investire in tecnologie, risorse umane e assistenza finanziaria”.  Ahmadou Kante, dell’ufficio regionale africano dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni), “il quadro giuridico attuale è insufficiente, perché i migranti ambientali non rientrano in nessuna categoria internazionale”. Solo 30 Paesi hanno tentato di elaborare delle strategie di protezione dei migranti ambientali.

Dal nostro inviato

Dakar, Senegal

Al Social Forum sono stati i direttori delle Caritas di diversi Paesi dove i disastri ambientali sono all’ordine del giorno a denunciare la situazione dei rifugiati a causa del clima. In Niger, ha spiegato Raymond Yoro, di Caritas Niger, l’aumento delle temperature ha allungato la stagione secca e ridotto la stagione delle piogge, con grave danno per gli agricoltori: “Prima nei villaggi i contadini sapevano dell’arrivo delle piogge dalla direzione del vento e dagli uccelli  Ora i venti soffiano in tutte le direzioni. Sono sparite alcune specie floreali, foreste e alberi e il deserto avanza. Alcune cultura tradizionali come la manioca sono state abbandonate” Altrettanti problemi li hanno gli allevatori, costretti a pascolare nelle zone agricole, a combattere con nuove malattie del bestiame. Così scoppiano conflitti sull’uso dell’acqua e della terra e migliaia di persone emigrano verso le città e nei Paesi vicini: Ghana, Benin, Burkina Faso, Togo. In Bangladesh si combatte i cicloni e le alluvioni. In 20 anni circa 30 milioni di persone hanno subito inondazioni. Francis Atul Sarker, di Caritas Bangladesh,  denuncia che l’arrivo degli sfollati ha portato “tensioni enormi e violenza etnica”. In Senegal l’effetto più eclatante dei cambiamenti climatici è il “nuovo fenomeno delle inondazioni improvvise, ha spiegato Marcellin Ndiaye, di Caritas Senegal, “ e l’erosione delle coste, che ha distrutto infrastrutture ed edifici”. L’esodo verso Dakar è stato massiccio. La capitale nel giro di pochi anni è passata da 1 milione a quasi 5 milioni di abitanti, la metà della popolazione ndi tutto il Paese. Ma è la Cambogia denuncia Sok Sakhan, di Caritas Cambogia, “il Paese più colpito dai cambiamenti climatici”: “Siccità, tempeste tropicali, tifoni, nuove infezioni a causa della presenza di insetti, e migrazioni forzate verso la Thailandia e il Vietnam”. Negli ultinmi dieci anni 1.800.000 persone sono state colpite dalle alluvioni, centinaia di migliaia di case e strade sono andate distrutte. Il governo ha istituito un Comitato nazionale per i cambiamenti climatici, di cui fa parte anche la Caritas.    

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