Cara prof, ho letto su un muro della mia città: «Società digitale uguale schiavitù». Questa frase mi ha fatto pensare al futuro riservato ai miei figli, alle difficoltà di vivere in una società che sta affrontando questa grande trasformazione. Che ruolo può giocare la scuola per arginare tale pericolo?
MARA
Cara Mara, l’affermazione “Società digitale uguale schiavitù” è molto forte, e poche righe non basteranno a chiarirne il senso.
La digitalizzazione ha trasformato il nostro modo di vivere, lavorare e comunicare, ma forse è troppo presto per definirla una schiavitù. Ci sono pro e contro. Da un lato, la tecnologia ha migliorato l’accesso alle informazioni, semplificato la vita quotidiana e creato nuove opportunità. Dall’altro, non si può negare la dipendenza che sta generando, soprattutto tra i più giovani.
La scuola, come agenzia educativa, deve limitare i rischi della digitalizzazione e trasformarla in un’opportunità, piuttosto che in una forma di schiavitù. Ogni giorno noi docenti cerchiamo di promuovere un rapporto equilibrato con il digitale, evitando dipendenze e valorizzando la dimensione umana della comunicazione. Sappiamo quanta comunicazione passi attraverso i cellulari, che noi “anzianelli” continuiamo a chiamare telefoni, ma che ormai sono strumenti per fuggire dalla realtà, che sia una noiosa lezione o un pomeriggio vuoto.
Parlare con i ragazzi dei rischi e delle opportunità li aiuta a sviluppare il pensiero critico, primo antidoto a ogni schiavitù. Con caparbietà dobbiamo continuare a valorizzare le competenze proprie della scuola: l’importanza della scrittura a mano, della lettura su carta e del ragionamento fuori dallo schermo. La chiave, quindi, non è demonizzare la società digitale, ma educare le nuove generazioni a utilizzarla in modo intelligente e consapevole, evitando che diventi una nuova forma di schiavitù.