Hanno pienamente ragione Salvatore Settis e Tomaso Montanari (si vedano le interviste correlate all'interno di questo stesso dossier) quando lanciano l'allarme sulle implicazioni del finanziamento dei privati, a vario titolo e in varie forme, a favore del nostro patrimonio culturale (e ambientale). In uno Stato meno miope del nostro, in grado di comprendere il valore strategico della cultura, il problema nemmeno si porrebbe, perché le risorse pubbliche non avrebbero subito la drammatica e progressiva decurtazione a cui abbiamo assistito in questi anni nel nostro Paese.
La realtà, però, è quella che ben conosciamo: il nostro patrimonio è, in molti casi, agonizzante; scarse sono le risorse rese disponibili dallo Stato; con ogni probabilità, nei prossimi anni non aumenteranno, vuoi per la situazione economica, vuoi per l'ignoranza di chi ci governa. Se questa è la situazione, il problema del rapporto fra bene pubblico e capitale privato, del finanziamanto privato del patrimonio pubblico è ineludibile. L'ideale sarebbe che lo Stato potesse gestirlo e curarlo in autonomia; ma così non è. Che cosa fare, dunque, nell'attesa e nella speranza che, un domani, si ristabilisca tale situazione ideale?
La questione non è affatto astratta. L'affitto dell'Anfiteatro di Pompei per una cena aziendale è solo l'ultimo caso. Ricordate Ponte Vecchio, a Firenze, chiusa a cittadini e turisti per una festa della Ferrari? Oppure la sponsorizzazione di Diego della Valle per il restauro del Colosseo? Come comportarsi in questi casi? La questione, a ben vedere, assume una valenza etica.
L'impressione è che chiudere le porte ai privati, in via pregiudiziale, non è sensato né utile. Anche se ciò - va detto chiaramente - non elimina nemmeno in minima parte le insidie che un'apertura ai privati evocano. In altri termini, si tratta di capire se l'apporto privato comprometta in qualche maniera la natura pubblica di un bene e il suo valore culturale. Affinché tali rischi non si verifichino, è necessario rispettare una serie di condizioni:
- benché finanziato da risorse private, un bene pubblico dovrebbe restare sotto ogni aspetto pubblico: proprietà e amministrazione, cioè, devono restare allo Stato. Benché auspicabile, non è tuttavia immaginabile che un privato investa denaro senza chiedere una partecipazione ai ricavi. Può accadere a volte che alcune figure illuminate pratichino un mecenatismo puro, senza scopo di lucro. Negli altri casi, se una "concessione" va studiata, in modo che sia sempre il pubblico a essere privilegiato, non è invece ammissibile che la gestione (ovvero le strategie, le decisioni "politiche") venga "sottratta" allo Stato e ai suoi rappresentanti.
- non è tollerabile che l'affitto o l'uso temporaneo di un bene del nostro patrimonio culturale comporti il deterioramento dello stesso. Attenzione, però: non si intende, qui, solo il deterioramento fisico (danni materiali), ma anche quello culturale, simbolico, culturale. Per essere chiari, un conto è se si affitta l'anfiteatro di Pompei per ospitare un convegno o unos pettacolo teatrale organizzato da enti privati, un altro se lo si consegna, anche se per poche ore, per una cena, una festa, un matrimonio privati... Se Della Valle garantisce milioni necessari per il restauro del Colosseo, ottenendo in cambio la visibilità del marchio della sua azienda, non sembra uno scandalo; diverso sarebbe se il contributo gli aprisse una strada nella gestione del bene o se gli garantisse una presenza invasiva nell'area del bene.
È essenziale comunque che da oggi si discuta, con serenità e senza pregiudiziali, del rapporto fra patrimonio culturale statale e privati.