Il “nuovo corso” – se davvero ci sarà – è iniziato qualche settimana fa ad Addis Abeba, la capitale etiopica, attraverso una “due-giorni” di trattative che, finalmente, ha portato a risultati significativi, dopo un’interminabile serie di insuccessi negoziali. Perciò, la più che ventennale guerra civile somala potrebbe, forse, essere a una svolta.
Nell’incontro di Addis Abeba è stato raggiunto un accordo tra i rappresentanti istituzionali della Somalia che prevede la costituzione di un nuovo governo entro agosto, che dovrà sostituire quello attuale di transizione. È stata anche definita la “road map” per giungere in tempi rapidi al nuovo esecutivo: i leader inizieranno subito a selezionare tra gli “elders” (capi tradizionali) i membri della futura assemblea costituente. Non solo. Sarà approvata, entro giugno una bozza della nuova Costituzione che dovrà essere definitivamente sancita il mese successivo.
Infine, è stato stabilito anche il successivo – fondamentale – passo che dovrebbe portare (questa è la speranza, dopo i quattordici tavoli di trattativa che si sono succeduti nello scorso ventennio) alla pacificazione del Paese, in guerra civile e di fatto privo di istituzioni credibili fin dal 1991: ad agosto saranno indette le elezioni per la formazione del nuovo Parlamento, dal quale dovrebbe nascere il Governo. Si tratterebbe, per la prima volta, non di istituzioni di transizione ma frutto di un’espressione di voto.
Al summit di Addis Abeba erano presenti, oltre al presidente del governo di transizione, Sharif Sheikh Ahmed, al suo primo ministro e al presidente del Parlamento, anche i leader delle regioni semiautonome del Galmudug, del Puntland e una rappresentanza della milizia filo governativa Al Sunna Wal Jamàa.
Il primo passo è la nascita di un Comitato tecnico, composto di 27 membri, 7 dei quali osservatori internazionali e 2 membri dell’ufficio Onu (Unpos) incaricato di sovrintendere alla selezione dell’Assemblea costituente. Assemblea che sarà costituita da 135 “elders”, capi tradizionali, che avranno il compito di redigere la nuova costituzione provvisoria. Il nuovo testo rimarrà in vigore fino a quando non saranno determinati gli Stati federali della nuova Somalia.
Secondo la “road map” approvata ad Addis Abeba, insomma, l’interminabile transizione somala dovrebbe terminare il 20 agosto prossimo. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha accolto con favore la notizia del nuovo accordo: ha parlato di «momento cruciale» per il processo politico in Somalia.
Reazione positiva, quindi, ma senza eccessivo ottimismo: il Consiglio di Sicurezza ha anche sottolineato la preoccupazione per il fatto che a circa tre mesi dalla scadenza del periodo transitorio, alcuni dei progetti previsti negli incontri precedenti della trattativa siano già rinviati o lasciati cadere.
Pace un po’ più vicina, ma ancora lontana, sembrano voler dire i membri dell'organismo Onu.
Vi sono, tuttavia, altri segnali che sembrano indicare un rinnovato impegno, sia somalo che internazionale, per la pacificazione del Paese africano. Anche dal “campo” arriva una notizia positiva: l'inviato speciale Onu per la Somalia, Augustine Mahiga, ha annunciato che i militanti somali legati ad Al Qaeda sono stati sconfitti nel Sud e nel Centro del Paese (vedi pezzo a seguire del dossier). L'offensiva congiunta dell’esercito regolare somalo e dei caschi bianchi dell’Unione Africana lanciata nei giorni scorsi contro le roccaforti dei ribelli Al Shabab ha ottenuto «pieno successo».
Secondo l’inviato speciale delle Nazioni Unite i ribelli hanno perso posizioni importanti e il controllo di numerose zone nella Somalia centrale e meridionale.
Intanto, l’Unione Europea ha nominato il proprio inviato speciale per la Somalia: si tratta del diplomatico della Farnesina Michele Cervone D'Urso. Ancora una volta sarà un italiano a svolgere un ruolo chiave nei rapporti con la Somalia, a conferma delle relazioni privilegiate fra l’Italia e il Paese del Corno d’Africa.
Una visita lampo, ma di quelle che lasciano il segno. Johnnie Carson, consulente per gli Affari africani del segretario di Stato americano, si è recato nei giorni scorsi a Mogadiscio per incontrare i responsabili del Governo federale di transizione (Tfg) della Somalia.
La visita di Carson, il rappresentante americano più alto in grado recatosi in Somalia negli ultimi 20 anni (dalla fine della missione internazionale di pace “Restore Hope”), ha senza dubbio il significato di sottolineare il “placet” statunitense all’intensa trattativa politica di queste settimane che hanno portato alla “road-map” (vedi pezzo a seguire) attraverso la quale entro il prossimo agosto la Somalia dovrà uscire definitivamente dall’epoca degli accordi disattesi e dei governi “fantasma”, per avere finalmente istituzioni stabili e non più transitorie.
Ma la presenza ha Mogadiscio dell’inviato Usa ha anche il significato dell’avallo dell’amministrazione Obama sulle operazioni militari in corso che hanno portato a ripetute offensive e vittorie sul campo delle cosiddette “forze alleate”, ossia le truppe dell’Unione Africana, quelle del Kenya e l’esercito regolare somalo.
Carson ha colto l’occasione per minacciare «sanzioni contro chiunque cerchi di affossare la “road-map”» e la creazione di istituzioni stabili. «Congeleremo i conti, non concederemo visti a chiunque faccia deragliare il processo di pace», ha detto.
Inoltre, Washington – che è il principale finanziatore della missione dell’Unione Africana (Amisom) nel Paese – ha messo una taglia sui principali capi del movimento di insurrezione al Shabaab per un totale di 33 milioni di dollari. Insomma, tutto indica un rinnovato impegno Usa per trovare una soluzione alla ventennale guerra civile somala.
Sul piano militare, intanto, è stata decisa ufficialmente la completa integrazione delle truppe kenyane dispiegate dall’ottobre scorso sul territorio somalo (nell’ambito dell’operazione “Linda Nchi”, cioè “Proteggere la nazione”) nella missione dell’Unione Africana (UA) Amisom. «Un passo decisivo nella strategia per sconfiggere al Shabaab», l’ha definita Ramtane Lamamra, commissario dell’UA per la pace e la sicurezza.
Anche l’ultima conferenza internazionale tenuta nei giorni scorsi a Istambul e dedicata al travagliato Paese del Corno d’Africa ha ribadito il sostegno alla missione militare e alla “road-map” che dovrà rinnovare le istituzioni politiche del Paese.
All’incontro hanno partecipato i rappresentanti di 57 Paesi e di 11 organizzazioni regionali e internazionali, oltre a diverse realtà della società civile somala. Il documento conclusivo, intitolato “Preparando il futuro della Somalia. Obiettivi per il 2015”, ha ribadito «il rispetto per la sovranità, l’integrità territoriale, l’indipendenza politica e l’unità della Somalia».
Il prossimo appuntamento, in questo cammino a tappe forzate verso la pacificazione del Paese, sarà a Roma, con la riunione del cosiddetto “Gruppo internazionale di contatto”, il 2 e 3 luglio prossimi. L’obiettivo dell’incontro sarà di dare nuovo impulso «alle fasi finali della transizione», come dice il documento di Istambul. Tutto in vista del prossimo 20 agosto, data entro la quale la Somalia dovrà dotarsi di nuova Costituzione e nuovo Parlamento.
La morsa intorno alle milizie degli estremisti islamici al Shabab si stringe sempre più. Dopo la conquista della cittadina di Afgoye – nei pressi di Mogadiscio – le truppe kenyane e dell’Unione africana (UA) sono entrate anche nella città di Afmadow, uno degli ultimi bastioni degli Shabab nel Sud della Somalia.
Afmadow era uno degli obiettivi che si erano proposti di conquistare i soldati di Nairobi all’inizio della loro offensiva nel Paese confinante, lo scorso ottobre, nella loro battaglia contro i fondamentalisti. A 120 chilometri dalla frontiera col Kenya, la cittadina è infatti uno dei punti strategici verso Kisimayo, ultima roccaforte ancora in mano ai ribelli legati ad Al Qaeda e grande porto dove i miliziani islamici possono ricevere approvvigionamenti militari.
Gli Shabab stanno dunque subendo dure sconfitte, per la prima volta da quando è sorto il movimento di guerriglia. I suoi miliziani sono costretti a ripetuti ripiegamenti, sia dalla zona a ridosso della capitale Mogadiscio, sia in direzione del porto di Kisimayo.
La prima offensiva portata su Afgoye dall'esercito governativo somalo e dalle truppe di pace dell'Unione Africana (UA), Amisom, era stata decisa per la forte concentrazione nell’area di Afgoye di migliaia sfollati. «L’obiettivo», ha detto il rappresentante speciale aggiunto del Presidente della Commissione dell'Unione Africana in Somalia, Wafula Wamunyinyi, «era quello di assicurare loro l’accesso ai servizi umanitari e il ritorno nella capitale Mogadiscio». L’operazione militare, fra l’altro, ha portato anche all’arresto di circa 400 combattenti delle milizie Shabab.
Anche se i combattimenti non hanno coinvolto i civili, hanno però nuovamente messo in movimento colonne di sfollati – secondo l’Hcr oltre 9 mila persone – timorosi di trovarsi coinvolti negli scontri. Secondo le notizie riportate dalle radio somale, lunghe file di camion e autobus colmi di gente si sono diretti verso la capitale Mogadiscio.
Al di là dei risultati positivi delle trattative di pace e della battaglia di Afgoye, la situazione del Paese resta assai difficile. È di pochi giorni fa la notizia della sospensione dell’attività umanitaria di Medici Senza Frontiere in alcuni centri sanitari e di fornitura di acqua potabile della regione del Galgaduud, nella Somalia centrale.
Quanto alle bombe e agli attentati, continuano senza sosta. Nell’ultima decina di giorni ci sono stati sette morti, in maggioranza soldati, per lo scoppio di due bombe, la prima nel quartiere di Kara, a Nord della capitale, l’altra a Bakara, il grande mercato di Mogadiscio.
Inoltre, altri due giornalisti sono stati vittime di attentati in pochi giorni. Il primo, Ahmed Ado Anshur di Radio Shebelle, è stato assassinato nella capitale da sicari che l’hanno raggiunto vicino alla sua abitazione al rientro dalla redazione. È il sesto cronista ucciso in Somalia dall'inizio del 2012.
Un altro noto cronista somalo, che lavora per l’emittente locale Bar-Kulan, nel quartiere di Mogadiscio Hamar Jajab, è stato invece gravemente ferito da tre uomini armati di pistola. Secondo quanto riferiscono i media locali, il giornalista, Mohamed Nur Mohamed detto Sharifka, stava ritornando a casa quando è stato oggetto di diversi colpi di pistola, due dei quali l’hanno colpito al petto e alla schiena, riducendolo in fin di vita.
I ribelli somali Al Shabaab hanno annunciato di prepararsi alla controffensiva contro l'avanzata delle forze alleate di Mogadiscio e Nairobi nel Sud del Paese.
Tuttavia, al di là degli annunci roboanti degli estremisti vicini al Al Qaeda, il gruppo ribelle sembra in realtà aver accusato il colpo delle sconfitte subite e degli ultimi sviluppi diplomatici, e mostra segni di divisione interna.
Intanto, sul piano militare, con la conquista di Afgoyee e di Afmadow, le forze dell'Amisom (Missione dell’Unione Africana in Somalia) e quelle governative si stanno avvicinando al porto strategico di Kismayo, la cui conquista taglierà l'accesso ai rifornimenti via mare agli Shabab. Attualmente, le truppe regolari e dell’Amisom hanno preso la cittadina di Bibi, a 75 chilometri da Kisimayo.
Non solo. Il comandante delle operazioni Amisom Ugadi Kiki ha annunciato che è in preparazione anche una nuova offensiva contro la città di Balad, 30 chilometri a Nord di Mogadiscio.
Gli abitanti dell’area di Kisimayo che si trovano ancora sotto controllo degli Shabab hanno riferito ai media locali che i ribelli somali stanno reclutando con la forza decine di persone, soprattutto giovani e bambini, per cercare di fermare l'avanzata delle forze alleate. Secondo testimoni locali, nelle ultime settimane un centinaio di bambini sarebbero stati costretti ad andare nelle scuole coraniche per imparare le regole della Jihad e inneggiare alla guerra contro i nemici dell'Islam, e sarebbero sottoposti a esercitazioni militari. Proprio per evitare di imbracciare le armi, in questi giorni centinaia di famiglie starebbero lasciando la città.
L’unico successo ottenuto dal gruppo radicale somalo è stata la ripresa della città di Elbur, nella Somalia centrale, ma non merito di una vittoria militare, quanto per l’abbandono della zona da parte dell’esercito regolare e dei militari etiopi che ne detenevano il controllo.
1991 – La Somalia è in guerra civile dal 26 gennaio 1991, quando cadde il regime del dittatore Siad Barre (che aveva conquistato il potere nel 1969 con un colpo di Stato). Da allora, il Paese è di fatto senza autorità e istituzioni in grado di controllare il territorio e di organizzare la vita civile e politica del Paese.
1992-1994 – La comunità internazionale decide di intervenire con l’invio di una missione Onu, la Unosom, nota come “Restore Hope”. L’obiettivo, è quello di aprire canali di sicurezza per l’invio di aiuti umanitari per la popolazione civile, ridotta alla fame dai violentissimi combattimenti e dalla conseguente paralisi di ogni attività economica. L’intervento militare internazionale, a cui partecipava anche l’Italia con la missione Ibis, si conclude nel primi mesi del 1994 con un nulla di fatto. La guerra continua.
1994-2004 – In questo periodo la Somalia resta preda dei “war lord”, i signori della guerra, che si dividono e controllano pezzi più o meno estesi dell’intero Paese. I principali scontri, naturalmente, avvengono nell’area di Mogadiscio, per il controllo della capitale, dove si oppongono le fazioni fedeli ai due più noti signori della guerra: Ali Mahdi e Farah Aidid. È in questo periodo che il Paese, già meta di traffici illeciti di ogni genere sotto Siad Barre, diventa il vero “duty free” dell’illegalità: dal traffico d’armi a quello di rifiuti tossici, dalla tratta di esseri umani al transito degli stupefacenti.
2004-2007 – Nel 2004, al termine dell’ennesima conferenza di pace (la quattordicesima), per la prima volta la trattativa riesce a partorire un Parlamento e un Governo di transizione credibili. Viene eletto Presidente del Paese Abdullahi Yusuf Ahmed e si forma un Governo federale di transizione (Tfg), che dopo un primo periodo di attività da Nairobi, a giugno 2005 entra in Somalia, prima a Johwar, poi a Baidoa e infine a Mogadiscio, da sempre capitale della Somalia. Nel 2006, il Governo, col decisivo aiuto delle forze armate etiopiche, riesce anche a sferrare un violento attacco alle milizie estremiste islamiche (le Corti Islamiche, nuove formazioni ribelli che si erano andate ad aggiungere ai signori della guerra) che in poche settimane sbaraglia la guerriglia e la costringe al ritiro. La ribellione, tuttavia, non finisce, ma si trasforma: comincia allora lo stillicidio degli attentati, delle bombe, degli attacchi suicidi dell’estremismo islamico vicino ad Al Qaeda. In Somalia si dispiega anche una piccola forza di pace interafricana costituita di caschi bianchi burundesi e ugandesi.
2008-2010 – Il Presidente Abdullahi Yusuf viene sostituito da Sharif Sheikh Ahmed, perché ritenuto più moderato e in grado di dialogare con la nuova forza ribelle emergente nel Paese: gli Al-Shabab (letteralmente significa “i ragazzi”), una formazione dell’estremismo islamico nata dalle frange più dure delle precedenti Corti Islamiche. Gli Shabab nel giro di un paio d’anni riescono ad assumere il controllo di vaste aree della Somalia centro-meridionale, e anche di una parte della capitale. Il Governo federale, nel contempo, appare sempre più diviso e fragile. La comunità internazionale comincia a temere che gli Shabab possano conquistare tutto il Paese.
2011-2012 – La Somalia, l’anno passato, viene colpita dall’ennesima crisi: questa volta è la siccità e la carestia ad affamare una popolazione già resa vulnerabile dai lunghi anni di guerra. L’emergenza umanitaria, che pure colpisce tutto l’Est Africa, mette in ginocchio soprattutto i somali: più di un milione fuggono dal Paese per non morire di fame. Verso la fine del 2011, dopo alcuni attentati rivendicati dagli estremisti islamici nel vicino Kenya, le truppe di Nairobi, il 16 ottobre, improvvisamente entrano in territorio somalo e attaccano la guerriglia degli estremisti islamici. L’intervento militare kenyano fa da prologo agli avvenimenti attuali: sembra che la comunità internazionale voglia ora esprimere un nuovo e più credibile sforzo per arrivare alla pace nel martoriato Paese africano. L’Onu, da diversi anni, continua a definire la Somalia come «la peggiore crisi umanitaria al mondo».
Dalla caduta del presidente Siad Barre nel 1991, le lotte intestine fra signori della guerra, e negli ultimi anni con la milizia musulmana integralista degli Shabab, hanno fatto fra 500 mila e un milione e mezzo di morti, 800 mila profughi e un altro milione e mezzo di sfollati su una popolazione totale di 9 milioni e mezzo. La speranza di vita media è di 50 anni e un bambino su quattro muore nei primi cinque anni di vita.