È la madre di Naftali, uno dei
tre studenti israeliani rapiti e
uccisi nei pressi di Hebron. Nonostante
il terribile momento
che lei e la sua famiglia stanno
vivendo, Rachel Fraenkel
ha accettato di rispondere alle
nostre domande, dopo aver
parlato cuore a cuore con un’altramamma
ebrea, Angelica Edna Calò Livné, che
da anni tesse reti di dialogo interreligioso
e interculturale nel Nord d’Israele.
«Abbiamo 7 figli», dice la signora
Fraenkel: «Naftali è il secondo. Suo fratello
maggiore ha studiato nello stesso
liceo, Makor Haim, a Kfar Etzion, e ora
studia Torah nella Yeshiva, una scuola
rabbinica. Quella che abbiamo scelto
per i figli è una scuola speciale: la religiosità,
profonda e impegnata, si fonde
con l’apertura verso il mondo e il consolidamento
della cultura e dello spirito
degli allievi. Dopo di loro ci sono 4 bambine,
dai 6 ai 14 anni, e un fratellino di
4 anni. Abitiamo proprio nel centro di
Israele, sulla strada tra Tel Aviv e Gerusalemme.
Il mio compagno è avvocato
e lavora nella polizia. Io insegno Torah
in un corso per donne, espressione del
rinnovamento ortodosso-femminista
che ha aperto i confini dello studio del
Talmud e della Torah, ai livelli più alti,
anche alle donne».
- Come hanno vissuto la tragedia
gli altri figli?
«Ogni figlio ha la sua età, quindi un
suo mondo interiore e una sua capacità
di elaborare. Con loro noi genitori parliamo
dell’eternità dell’anima e ripetiamo
che Naftali può restare con noi sempre,
poiché non è limitato da un corpo.
Questo aiuta, ma non risolve il problema
della sua assenza e della nostalgia
profonda che sentiamo per lui. Io cerco
di conservare un equilibrio tra la volontà
di continuare ad avere una casa felice
e normale e il desiderio di dare legittimità
al dolore, alla sofferenza, al fatto
che è accaduto qualcosa di terribile e
spaventoso. È importantissimo per me
che i miei figli non crescano nel sentimento
dell’odio e della rabbia, che riescano
a vivere la spensieratezza della loro
età e una crescita serena».
- Avevate mai avuto, prima, la sensazione
di essere in pericolo?
«Mai, assolutamente. Viviamo in
una zona tranquilla, in campagna. La situazione
politica è complicata ma, prima,
non aveva influito sulla nostra vita».
- In queste settimane avete mai pensato
di andare a vivere altrove?
«Non abbiamo mai pensato di lasciare
Israele e oggi, come sempre, sono grata
ai miei genitori che negli anni Cinquanta
hanno fatto un passo difficile e
coraggioso e sono venuti dall’America a
costruire la loro vita qui».
- Come le è venuta l’idea di manifestare solidarietà alla famiglia di Muhammad, il ragazzo palestinese sequestrato e ucciso a Gerusalemme?
«Chiamare la famiglia di Muhammad
è stata la cosa più naturale. Sono rimasta
sconvolta da questo assassinio e
ho sentito con tutta me stessa la sofferenza
dei genitori. Sono orgogliosa della
magistratura israeliana che si è affrettata
a indagare e catturare i colpevoli.
Era molto importante per noi trasmettere
il messaggio che nessun innocente
deve essere colpito e solo la legge ha il
mandato per occuparsi di questi casi.
Sono sicura che la famiglia di Muhammad
sta soffrendo terribilmente ed è
sotto la pressione della sua comunità».
- Quando ha parlato all’Onu, ha sentito
intorno a sé la giusta solidarietà?
«Quando ho parlato all’Onu ho sentito
grande solidarietà da parte di tantissima
gente di tutto il mondo. Le persone
davanti alle quali ho pronunciato il
mio discorso non sono fonte di empatia
o dialogo. Ma l’intervento è stato importante
per coinvolgere e sollevare il dibattito
internazionale».
- Quanto conta la fede per lei e la
sua famiglia?
«Molte persone ci hanno chiesto se
sopportare questo dolore ci è più facile
perché siamo credenti. Ho risposto che
prima di tutto siamo genitori e la preoccupazione
per i nostri figli rapiti non è
stata minore per merito della fede. Penso
che in questa nuova realtà, in cui dobbiamo
affrontare la loro morte terribile,
c’è da un lato la sofferenza per la loro
mancanza e l’incredulità che tutto ciò
possa essere realmente accaduto, cioè
sentimenti che sarebbero avvertiti in
qualunque famiglia, religiosa o no. D’altro
canto la fede e la religione ti offrono
un contesto di pensiero quotidiano che
ti dà la forza di andare avanti. I precetti,
le usanze che regolano i primi sette giorni
del lutto, l’unione della famiglia, la
capacità profonda di pregare e persino
la regolarità e la consuetudine delle preghiere,
obbligano la persona a essere attiva
e a non sprofondare nel suo dolore.
E anche la fede nell’eternità dell’anima,
naturalmente, e il nostro contesto storico:
questi ragazzi si sono uniti alla lunga
lista di altri che, come loro, sono stati
uccisi perché ebrei».
- Che cosa possono fare le religioni
per affrontare e risolvere i conflitti in
quella che noi cristiani chiamiamo
Terra Santa?
«Non ho una risposta per questa domanda.
Nei giorni della ricerca disperata
dei nostri figli abbiamo incontrato
molti esponenti di religioni diverse, arabi
musulmani o cristiani che erano scossi
da questo crimine e desideravano aiutarci.
Ma in confronto a loro le cellule
di Hamas che hanno perpetrato il delitto
sono formate da estremisti che non
si lasciano affatto influenzare da chi ha
pensieri più moderati».
- Cosa ha provato durante e dopo la
visita del Papa in Israele e Palestina?
«Per Israele è stato un grande evento.
Il Papa aveva anche consentito a incontrare
noi genitori dei ragazzi rapiti.
Il nostro viaggio a Roma era già programmato.
Poi, è arrivata la terribile notizia
del ritrovamento dei corpi. Ma ringraziamo
moltissimo papa Francesco
per il suo invito».