“Viviamo tempi bui, direbbe, oggi, Berthold Brecht. Ma è proprio in un contesto tragico come il nostro, che il teatro può essere utile. Potrebbe aiutarci ad aprire gli occhi sui nostri egoismi e sulle ingiustizie sempre più insopportabili che attraversano il nostro mondo. Tutti dovremo rinunciare a qualcosa”, afferma con quell’adorabile “erre” liquida che tradisce la sua origine straniera. La passione totale per il teatro è già dentro questa sua prima battuta.
D’altra parte al teatro l’attrice Andrea Jonasson, vedova del grande regista Giorgio Strehler, ha dedicato l’intera esistenza. E il teatro l’ha ricambiata con una lunga carriera costellata da successi internazionali, ottenuti recitando in italiano e in tedesco sui palcoscenici di mezz’Europa. La incontriamo a Verona, dov’e s’è recata il 2 luglio scorso per ricevere il prestigioso premio “Renato Simoni, per la fedeltà al teatro di prosa”, giunto quest’anno alla sua 58° edizione.
Prima di lei era stato attribuito a 16 altre grandissime del palcoscenico italiano tra cui “mostri sacri” come Paola Borboni, Anna Proclemer, Emma Grammatica, Lilla Brignone, Annamaria Guarnieri, Rossella Falk. In Germania e in Austria è considerata una diva. “Non mi sono mai sentita tale. Anzi, sono timida, non mi piace parlare di me. E prima di salire sul palco ho ansie e dubbi. Ma, questo sì, sono sempre stata fedele al teatro in 52 anni d’attività. Senza un tradimento, nonostante le tentazioni siano state molte”.
Una vocazione precoce quella dell’attrice tedesca (il suo vero nome è Andrea Karina Stumpf), di padre svedese e italiana d’adozione, già Premio Eleonora Duse nel 1997 e Grande Ufficiale al Merito della Repubblica nel 2011: entrata giovanissima nella Scuola d’arte drammatica di Monaco, si trasferisce ad Amburgo per seguire le lezioni del grande regista e attore Gustav Gründgens. “Poi mi sono fatta, come dite voi, le ossa in teatri di provincia”.
Quindi le stagioni nei principali teatri tedeschi, ma anche a Zurigo e a Vienna. Si mette anche in mostra nella tv tedesca recitando in riduzioni teatrali per il piccolo schermo. Nel 1973 l’incontro con Strehler e l’avvio dell’impegno al Piccolo Teatro. Un sodalizio artistico che diventa anche personale. I due si sposeranno nel 1981. “Mi insegnò l’italiano ed esordii nella vostra lingua con ‘L’anima buona di Sezuan’ di Brecht, diretta da lui”, racconta. “Un lavoro difficilissimo: quattro ore in scena facendo due personaggi diversi. Dovevo cambiarmi in un minuto”. Fu una memorabile interpretazione che divenne modello del cosiddetto Verfremdungseffekt, cioè la tecnica brechtiana “dello straniamento”.
Il suo Giorgio scomparve la notte di Natale del 1997: “Mi manca terribilmente. Non è più tempo delle lacrime, ma il vuoto che ha lasciato in me è incolmabile. Lui era inimitabile, unico. Era insieme testa e cuore, ragione e fantasia. Con lui ho conosciuto la felicità nell’arte e nella vita”. Un ricordo privato? “Adorava il mare. Le migliori intuizioni gli venivano in acqua, nuotando. Come l’idea geniale di iniziare il primo atto di ’Come tu mi vuoi’ di Pirandello in lingua tedesca invece che in italiano, che sconvolse il pubblico del Piccolo, l’ha pensata nuotando assieme a me”. Un difetto? “Pur essendo affascinante, aveva il complesso della sua immagine. Non si piaceva fisicamente, a tal punto che in bagno per radersi la barba spegneva la luce e abbassava le persiane. Così, a volte, finiva col tagliarsi”.
Anche quest’anno, come fa da quando è morto il marito, Jonasson preparerà per il 14 agosto, compleanno di Strehler, una cena con pochi amici in mare e brinderà “assieme a lui”. “E se non ci saranno gli amici, farò lo stesso in barca navigando da sola fino all’isola di Giannutri. Mi fermerò in una cala, getterò l’ancora. Stapperò una bottiglia di champagne e, guardando le stelle, parlerò con lui”.
Da tempo l’attrice tedesca vive e lavora a Vienna. “Laggiù la cultura conta ancora, non si sente la crisi come qui”, afferma. Da marzo è impegnata con la commedia “Alla meta” di Thomas Bernhard. “Spettacolo molto lungo e complesso”. Nell’appartamento milanese di via Medici, dove un tempo viveva col marito, ci torna poco. “Sono tre anni che non recito in italiano, ho perso un po’ l’allenamento”, ammette. “Mi piacerebbe tornare nei vostri teatri. Se dovessi fare del cinema, mi ispirerebbe molto essere diretta da Sorrentino, oppure da Tornatore o Moretti”.
L’attrice da anni è anche impegnata con una ong austriaca che opera in Eritrea. L’ultima volta che è venuta a Milano, s’è imbattuta nell’emergenza profughi e s’è mescolata coi tanti milanesi che portavano sporte d’alimenti ai migranti stipati alla stazione. Commenta amaramente: “Ho incontrato moltissimi eritrei con le loro facce per bene. Mi sento impotente di fronte a tanta sofferenza. Se solo avessi una famiglia, un compagno, prenderei subito in casa una coppia di loro con un bimbo. Ma vivo da zingara”. Si interrompe per correggersi: “Un tempo questa era una bella parola: significava musica, divertimento. Oggi, Dio mio, non si può neanche più pronunciarla. Contro gli zingari si chiede l’intervento delle ruspe”. Aveva ragione Brecht: davvero tempi bui, cara Andrea.