Chadia è una ragazzina
molto simpatica che ha
10 anni e tifa per il Napoli
anche se vive a Firenze. Il
calcio, del resto, è la passione
di famiglia, a cominciare
dal papà Hicham, che
era soprannominato “diamante
nero” per le sue prodezze con il
pallone, al fratello Hamid Matteo che
a 8 anni è una promessa del Ponte a
Greve, la medesima società per cui
giocava suo padre prima di afflosciarsi
all’improvviso su un campo di calcio
tradito da un cuore allo stremo.
È una vista che fa bene al cuore la
ragazzina, che lui chiama Principessa,
abbracciata al suo papà, e si spera che
attraverso le nostre pagine possano
goderne anche altri, i tanti che hanno
fatto la scelta drammatica e generosa
di donare gli organi di un familiare deceduto.
E una in particolare, la mamma
che un giorno ha detto il suo
sì all’espianto del cuore del figlio
quando per lui non c’è stato più nulla
da fare. «Custodirò per sempre l’amore
per quella mamma dentro questo
cuore», racconta Hicham Ben ’Mbarek,
32 anni, musulmano, originario del
Marocco, che oggi senza quel gesto di
generosità estrema non sarebbe qui.
«Mi avevano dato pochi giorni,
anzi poche ore di vita. Giocavo a calcio
e mi sono accasciato sul campo, sette
attacchi uno via l’altro e lunghi mesi
in ospedale con la prospettiva che
tutto potesse finire improvvisamente.
E invece grazie all’amore grande di
quella madre, che non si è chiesta a chi sarebbero andati gli organi di suo
figlio, di quale religione fosse o di che
Paese, sono ancora qui. Anzi, la vita si
moltiplica perché proprio in queste
ore sta per nascere un terzo bambino,
che abbiamo deciso di chiamare
Francesco Adam».
La gratitudine di Hicham per chi gli ha ridato la vita si traduce da tempo nei molti incontri organizzati dall’Aido in cui porta con entusiasmo la sua testimonianza, ma acquista un significato ancora più ampio in un momento in cui l’odio religioso imbratta le cronache e rischia di diffondere un contagio senza argini. Lui invece ha solo parole di pace come quelle che ha pronunciato a Caserta in occasione della cerimonia del Premio Le buone notizie Civitas casertana, che ha la finalità di riconoscere l’impegno dei giornalisti capaci di cercare i lati positivi dell’attualità senza limitarsi alla mera denuncia, ma che quest’anno ha premiato anche la buona notizia (scovata dal collega Gianluca Testa dell’omonimo blog del Corriere della Sera) e cioè la storia di Hicham.«Mi avevano dato pochi giorni, anzi poche ore di vita. Giocavo a calcio e mi sono accasciato sul campo, sette attacchi uno via l’altro e lunghi mesi in ospedale con la prospettiva che tutto potesse finire improvvisamente. E invece grazie all’amore grande di quella madre, che non si è chiesta a chi sarebbero andati gli organi di suo figlio, di quale religione fosse o di che Paese, sono ancora qui. Anzi, la vita si moltiplica perché proprio in queste ore sta per nascere un terzo bambino, che abbiamo deciso di chiamare Francesco Adam»
«Sono orgoglioso di portare un
cuore cristiano nel mio petto di musulmano
», ha continuato a ripetere invitando tutti a fare qualcosa
nella loro vita quotidiana per seminare
pace, amicizia e aiuto reciproco “in
nome dei figli”. «Se continueremo a raccontare le
ragioni e le storie dei padri, delle ingiustizie,
delle violenze, dei soprusi»,
spiega, «seguiteremo a parlare solo di
rivendicazioni e vendette e non ci salveremo
mai. Io dico di ripartire dai
bambini, di azzerare tutto, di non
chiedersi chi ha sbagliato di più o
meno, perché noi adulti abbiamo
sbagliato tutti. Io dico mettiamoci a
insegnare ai nostri figli il rispetto, il
rispetto che ha spinto me, arrivato in
Italia a 7 anni su un gommone abbracciato
a mia madre, ad amare questo
Paese che mi ha accolto, rispettandone
leggi, usanze e religione, pur amando
profondamente la mia. Sarebbe assurdo
che la volessi imporre agli altri. Sarebbe
come se, quando uno ti invita a
casa sua, tu gli dici di spostare questo o
quello, di togliere la croce dalla parete
e far mettere alla moglie il velo... Ma il
rispetto si favorisce dicendo anche al
proprio bambino di invitare a casa oltre
a Giuseppe e Michele anche Sahid
o Mustafà, perché è giocando insieme
che si impara a conoscersi e a vivere in
pace. Altro che odio e violenza!».
Il collegamento del pensiero con i
fatti recenti della strage di Parigi e di
quanto accade ovunque nel mondo è
fin troppo facile, ma Hicham non ha
dubbi sul fatto che «i farabutti che uccidono
vogliono proprio alimentare
l’odio. Se cadiamo nella spirale della
morte non ci salveremo mai e invece
dobbiamo gridare a gran voce, e insegnare
ai nostri figli che chi uccide non
ha religione, che non c’è Paradiso per
chi usa la violenza e ammazza, perché
Dio è buono e sicuramente può perdonare
tutto, ma non chi dà morte, come
insegna papa Francesco da cui mi piacerebbe
tanto andare per testimoniare
a lui la mia gratitudine ai cristiani che
mi hanno accolto».
Il calciatore Hicham, che dopo aver
abbandonato il campo si è dedicato
alla Benheart, una fruttuosa attività di
stilista della pelle (a Firenze e anche
all’estero) in cui lavorano sei italiani,
prende in prestito una bella immagine
dal suo sport preferito per spiegare
la sua teoria: «Se l’allenatore insegna
ai suoi a tirare calci agli avversari e a
offenderli in modo che perdano la pazienza
e facciano falli e siano espulsi,
non usa una buona tattica, perché alla
fine vince chi ha pazienza, chi mantiene
la calma. Insegniamo ai nostri
figli a rialzare l’avversario e dargli la
mano anche se ti ha fatto un’entrata
brutta, senza cadere nel tranello della
violenza che chiama violenza. Solo
così vinceremo la partita. La più importante
delle nostre vite».