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giovedì 17 aprile 2025
 
il caso
 

Sposa un'italiana, ma per ottenere la cittadinanza del nostro Paese la Prefettura gli scrive che deve tornare in Libia e richiedere un certificato penale

05/11/2019  E' la richiesta fatta a un giovane togolese, approdato anni fa nel nostro Paese su un barcone partito da Tripoli. Ha tutte le carte in regola, peccato che per completare la pratica la Prefettura di Firenze esiga anche un attestato giudiziario rilasciato dal Tribunale nordafricano ...

Il togolese naturalizzato italiano Tewfina Kassimna mostra la comunicazione che gli richiede il certificato penale del Tribunale di Tripoli.
Il togolese naturalizzato italiano Tewfina Kassimna mostra la comunicazione che gli richiede il certificato penale del Tribunale di Tripoli.

Tewfima Kassimna è un giovane di 27 anni proveniente dal Togo, sposato con Caterina, una ragazza italiana originaria della Puglia. La loro famiglia è composta anche da due bambini di 5 e 2 anni. Vivono a Firenze, la città in cui entrambi lavorano. Sin qui sembra una normale e sempre più frequente storia di matrimoni misti a lieto fine. Ma il problema è quando Tewfima chiede, come suo diritto, la cittadinanza italiana. Perché alla mole di documenti presentata e alla lunga trafila effettuata dal togolese manca un piccolo dettaglio: tornare in Libia, l’inferno da cui proviene, per ottenere un certificato penale. Assurdo. Eppure è proprio così. Ma come è possibile?

I due ci raccontano la loro viocenda nel loro appartamento fiorentino. La foto del giorno del matrimonio di Tewfima e Caterina è appesa al muro del salotto. I bambini, bellissimi, giocano ignari della battaglia quotidiana per la legalità e i diritti del padre e, di conseguenza, anche per i loro. Ascoltiamo il racconto sulla Libia del giovane, quando era ancora richiedente. Gli orrori, lo sfruttamento, un periodo di terapia per superare i traumi subiti durante la sua detenzione arbitraria nel Paese africano.

Ma perchè Tewfima non è ancora cittadino italiano? La Legge 286/98, (il Testo Unico sull’Immigrazione) assicura a tutti i cittadini stranieri il diritto superiore all’unità familiare, senza preclusioni, garantendo al coniuge straniero di cittadino italiano il permesso di soggiorno per motivi familiari e dopo due anni dal matrimonio (ridotto poi a uno, se ci sono figli nati dalla coppia) anche la cittadinanza italiana, se richiesta dallo straniero allo Stato. Ma la storia di Tewfima e Caterina ci mostra come tali diritti siano difficili da ottenere in Italia e con quanta burocrazia un immigrato deve confrontarsi. L’esperienza di questa famiglia, infatti, è piena di insidie che non riguardano la differenza culturale o le incomprensioni tra gli sposi, ma le difficoltà degli stranieri nel soddisfare le proprie prerogative.

Questa storia comincia nel villaggio di Pagala, in Togo, a metà strada tra la capitale del Paese, Lomé e la città di Sokodè (recente scenario di scontri e di violenze contro la popolazione civile). “Durante gli scontri in Togo mio marito si trovava proprio lì, alla disperata ricerca dei documenti necessari all’acquisizione del permesso di soggiorno dopo il nostro matrimonio. Ho passato tutta la gravidanza, fino all’ultimo mese di gestazione di nostra figlia, andando in questura  - dove a volte passavamo anche l’intera giornata -  per richiedere il permesso di soggiorno di mio marito, senza ottenere niente”, racconta la giovane. “Alla fine lui ha dovuto tornare in Togo, nel pieno delle proteste e degli scontri, mentre io ero era rimasta qui in Italia con i bambini e con il terrore di perderlo a causa delle violenze che si consumavano quotidianamente nel Paese africano, ma anche nel timore che chiudessero le frontiere e gli venisse impedito di poter tornare in Italia. In quel periodo, il governo togolese aveva oscurato Internet rendendo molto difficile la comunicazione tra me e lui e alcuni voli aerei (compreso il suo volo di ritorno all’Europa) sono stati cancellati. Rischiavamo di rimanere separati per un tempo imprecisato, mentre il suo titolo per rientrare in Italia aveva un margine di validità molto breve”, continua Caterina.

D’altronde, per avere un permesso di soggiorno ci vuole il passaporto e in buona parte dei Paesi del mondo, questo documento viene rilasciato soltanto nel proprio Paese e Tewfima non lo possedeva, dato che era entrato in Italia passando dalla Libia, dove aveva vissuto per quasi due anni rinchiuso in un garage in condizioni di sfruttamento, eseguendo lavori forzati e subendo ogni forma di violenza.

Tewfima fa fatica a parlare di quel periodo infernale. Una sera, ricorda, sono arrivati i libici di una altra fazione avversaria a quella del “padrone” e, dopo aver sfondato la porta del garage dove si trovava rinchiuso insieme ad altri ragazzi africani, li hanno presi, picchiati, torturati. Volevano il riscatto, cercavano di estorcere loro dei soldi che non possedevano. Alla fine il giovane togolese e gli altri detenuti vengono obbligati a salire a bordo di uno dei tanti gommoni sovraccarichi di esseri umani che sono partiti dalla Libia verso la morte o verso l’Europa nel 2015, spinti in mare sotto le imprecazioni dei libici che si divertivano a terrorizzali persino quando si trovavano già in balia delle onde: “andate a morire”, avevano gridato.

Così Tewfima era arrivato vivo in Italia, dopo essere stato salvato in mezzo al Mediterraneo da una nave italiana. “Non avevo mai pensato di venire in Europa. Ero fuggito dal mio Paese per le difficili condizioni di vita lì ed ero andato in Libia sperando di poter lavorare e di avere una vita più dignitosa, ma la realtà della Libia è davvero terribile, impossibile da raccontare”, spiega il ragazzo. “In Italia avevo fatto domanda di asilo e poi ho conosciuto Caterina. Dopo un po' di tempo, visto che ci volevamo bene, ci siamo sposati. Tutto sembrava andare per il meglio, ma poi mi hanno detto in questura che non potevo ottenere il permesso di soggiorno per motivi familiari perché non avevo il passaporto e così ho dovuto tornare al mio Paese, dove ho vissuto un’altra esperienza di conflitto, mentre mia moglie e i bambini mi aspettavano in Italia”.

Ma alla fine Tewfima ce la fa. Torna in Italia col suo bravo passaporto. Tornato dalla sua famiglia a Firenze, il giovane riesce a ottenere il permesso di soggiorno. Recentemente aveva fatto richiesta di cittadinanza italiana, come di diritto e previsto dalla legge, ma la risposta negativa della Prefettura di Firenze suona come surreale: Tewfima infatti “deve produrre il nulla osta dal casellario giudiziario in Libia, e altri documenti come il certificato di nascita e il casellario giudiziario del Togo tradotti e legalizzati nel Paese che li produce, dall'ambasciata italiana presente sul territorio di origine dello straniero, altrimenti in Italia non possono essere accettati “. In Togo, tuttavia, non esistono rappresentanze diplomatiche italiane. Per poter richiedere la cittadinanza italiana io giovane togolese dovrebbre intraprendere due distinti viaggi: uno verso il Ghana, che nonostante non sia il suo Paese, ha la rappresentanza diplomatica italiana e lì forse potrà chiedere la legalizzazione dei suoi documenti, ma dovrebbe viaggiare anche verso la Libia, luogo di tortura, prigionia, estorsioni e violenza.

Abbiamo cercato di capire come sia possibile adesso per un qualsiasi individuo andare in Libia e così abbiamo contattato varie agenzie di viaggio che mi hanno risposto in modo unanime: “In Libia non si può andare, è un Paese in guerra”. E come può lo Stato italiano pensare che una persona possa viaggiare verso un Paese in guerra a prendere un assurdo certificato? Lo chiediamo proprio a lui, Tewfima, che ci risponde: “Pensare di tornare in Libia, dove sono stato schiavizzato e dove ho sofferto ogni sorta di violenza e di sopruso è una follia. Come può si può pensare che qualcuno che è scappato dall’inferno ci possa tornare lì a chiedere dei documenti? In Libia ci sono i lager! E’ chiedere ad un sopravvissuto agli orrore di ritornare lì, sotto le bombe, a richiedere la propria fedina penale, magari a coloro che lo hanno rapito, detenuto, torturato. Sembra una richiesta normale questa? A me sembra assurda”, conclude mostrando tutti i suoi documenti: la patente da guida, il contratto del servizio civile che sta svolgendo nel terzo settore e il certificato di competenza linguistica di italiano, introdotto come requisito per la cittadinanza dal Decreto Sicurezza.

Tewfima dice di non voler rassegnarsi all’ennesimo ostacolo che gli viene imposto dalle istituzioni: “Posso capire tutte le esigenze della legge, come il passaporto, i documenti legalizzati presso le ambasciate italiane nei Paesi di provenienza degli stranieri. Tutta questa burocrazia rende la vita nostra tanto difficile, ma da africano so che niente è facile, né regalato nella vita e capisco anche che ci siano queste esigenze. Pensare però che un sopravvissuto alla Libia debba tornare in quel luogo per chiedere un documento che nemmeno può esistere, dato che nessuno di noi, ex prigionieri in Libia siamo mai veramente esistiti per quello Stato che non ci ha mai riconosciuto la dignità di persone umane, questo davvero non lo posso accettare. Per questo farò ricorso in Tribunale”.

Le detenzioni finanziate e rifinanziate dall’Europa, dall’Italia. Andrà avanti per ottenere i suoi diritti, perché non sia ulteriormente calpestata la propria dignità. Lo farà non soltanto per sé stesso, ma per la sua famiglia e, forse, inconsapevolmente, un po' anche per noi.

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