Caro padre, sono una mamma quarantenne di due bambini delle scuole elementari. Sono sposata da 10 anni, solo civilmente, con mio marito, precedentemente divorziato e attualmente non praticante. Vivo in un piccolo paese, frequento e partecipo, credo con gioia, alla vita dell’oratorio e della parrocchia, facendo anche nel corso dell’anno, settimanalmente, l’aiuto catechista (per compiti di assistenza e sorveglianza ai bambini) nella classe di uno dei miei figli.
Negli anni sono stati diversi i momenti di difficoltà legati alla mia situazione di “irregolarità”. Poco più che ventenne ho pianto e sofferto dopo l’ultima mia confessione, dinanzi a un frate che mi indicava quale unica via per «sfuggire alla condanna eterna delle fiamme» di lasciare l’allora mio fidanzato. Ho scelto di continuare ad amarlo e tuttora lo amo, non senza difficoltà, nel cammino delle nostre vite parallele che a intermittenza si incrociano. Ho, con tristezza, rinunciato al da sempre sognato matrimonio in chiesa. Alla prima Comunione di mia figlia ho affrontato con dolore il non poter condividere a pieno con lei questa sua prima tappa importante ed è stato difficile per me spiegarle il perché non possa mai ricevere il dono del Pane.
Ma per tutto questo, forse, ero preparata. La domenica di Pasqua, come avviene anche a ogni Natale, faticosamente ho convinto mio marito ad accompagnarci alla Messa e ho varcato la soglia con l’emozione di essere lì insieme. Arrivati in chiesa con un po’ di anticipo e con poche persone presenti, ho visto il sacerdote, aiutato poi dal seminarista, girare tra i banchi alla ricerca di potenziali lettori per la celebrazione. A pochi minuti dall’inizio era chiaro che ancora non avessero trovato dei candidati e ho sperato che, nella chiesa ormai piena, vedessero anche me. Riconosco la mia non idoneità a essere lettore delle liturgie, ma credevo di poter essere portavoce delle preghiere dei fedeli tra i quali mi sento ricompresa. E lì, nella mattina del giorno del Gesù risorto, tra i canti di gioia, con accanto mio marito e i miei figli, nuovamente ho pianto la mia condizione.
UNA FEDELE
Cara amica, la tua lettera mi ha commosso. Mi sento vicino a te e comprendo la tua sofferenza. Mi ha colpito molto la tua fede, che si esprime nel partecipare con gioia alla vita della parrocchia, ma anche nell’accompagnare i tuoi figli in chiesa, convincendo quando possibile anche tuo marito. La verità e la solidità della tua fede appare anche nella tua perseveranza cristiana nonostante i limiti dovuti alla tua condizione. Anche il tuo pianto, proprio nel giorno di Pasqua, è un altro segno di amore per il Signore e di fede in lui. Dio ti è vicino, ti vuole bene. Come dice il salmo 56, nel suo otre raccoglie le tue lacrime, sono tutte scritte nel suo libro, e alla fine le asciugherà dal tuo volto (Isaia 25 8 e Apocalisse 21,4). Uno dei tuoi compiti, oggi, è quello che già stai svolgendo: continuare a vivere la vita cristiana, partecipando alla liturgia e testimoniando l’amore di Dio con quella capacità di comprendere il dolore e le sofferenze degli altri e di consolarle che ha chi per primo ha sofferto.
È possibile, però, una più piena partecipazione alla vita sacramentale o almeno alle attività della parrocchia? Mi vengono in mente due riflessioni di papa Francesco. Una si trova in un’intervista rilasciata nel 2014 a un quotidiano argentino. «I divorziati- risposati non sono scomunicati», ha detto Francesco, «ma non possono essere padrini di Battesimo, non possono leggere le letture a Messa, non possono distribuire la Comunione, non possono insegnare il catechismo, non possono fare sette cose, ho l’elenco lì. Se racconto questo, sembrerebbero scomunicati di fatto! Allora, aprire un po’ di più le porte». Questo tema è stato affrontato nell’esortazione Amoris laetitia. Riprendendo la relazione finale del Sinodo, Francesco scrive: «I battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni occasione di scandalo. La logica dell’integrazione è la chiave del loro accompagnamento pastorale, perché non soltanto sappiano che appartengono al Corpo di Cristo che è la Chiesa, ma ne possano avere una gioiosa e feconda esperienza. Sono battezzati, sono fratelli e sorelle, lo Spirito Santo riversa in loro doni e carismi per il bene di tutti. La loro partecipazione può esprimersi in diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate». Già in diverse diocesi, come in quelle campane, si sta facendo discernimento su questo e si ritengono superate alcune limitazioni (tranne quella di ministro straordinario della Comunione). Penso che su questo ti possa rivolgere al parroco o verificare com’è la situazione con i responsabili diocesani della pastorale familiare. Alla fine, il riferimento è sempre il vescovo.
Foto IStock