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lunedì 07 ottobre 2024
 
 

Stadi chiusi, bene le regole ma distinguiamo tra razzismo e goliardia

08/10/2013  L'Italia recepisce le direttive Uefa e le sanzioni si fanno dure per chi offende a sfondo razziale e discriminatorio. E' un bene, ma serve distinguere tra razzismo e goliardia. Se tutto è razzismo niente è razzismo e si consegnano gli stadi al ricatto delle curve. Le norme vanno rispettate, ma la Federazione faccia chiarezza.

Il ricordo vola a una domenica pomeriggio ai distinti dello stadio Zini di Cremona, quando in campo c’erano i riccioli di Alviero Chiorri, per tutti il magico. Metà anni Ottanta del secolo scorso, quando Luzzara era presidente e lo slogan più gridato era «Si va, si va in Serie A». Poi certo, c’era anche quello che dai distinti urlava, in dialetto: «Arbitro! Te set negher perché t’è mort el gatt”, dove negher era un riferimento all’uniforme arbitrale all’epoca nera per tutti e l’unica parola esistente in dialetto cremonese per dire “nero”, nella più neutra delle accezioni: quella cromatica.

Quel giorno la partita doveva ancora cominciare, la Cremonese ospitava il Piacenza, rivale nella corsa alla Serie A, e la curva casalinga sembrava insolitamente tranquilla per un derby del Po sulla sponda cremonese, dove piacentini fa , dalla notte dei tempi, rima con «ladri e assassini» e dove il campanile del Torrazzo è appuntito come uno spillone. Aspettarono distrattamente che i piacentini si sistemassero in curva Nord e poi, quando la videro piena, coprirono la curva Sud con uno striscione sesquipedale: «Benvenuti in Italia». Bossi e i suoi non erano neanche nella mente del Signore e quello striscione fu salutato come meritava, con sfottò da caserma dall’altra parte. Nessuno s’indignò, perché faceva ridere tutti, anche i piacentini: era un’esplosione di goliardia.

Vien da chiedersi se oggi, nel tempo dei nervi tesi e delle sensibilità scoperte, quello striscione politicamente scorrettissimo ma ironico e goliardicissimo nella sua enormità, non sarebbe diventato un pretesto per chiudere lo Zini per «discriminazione territoriale». L’Uefa giustamente invita a non fare sconti, il giudice sportivo decide in base alle segnalazioni, non sempre univoche per la verità: il risultato è quantomeno confuso.

Lungi da noi sdoganare l’offesa, la si chiami razzismo o discriminazione territoriale, ma è un fatto che, applicate così, le regole che ci sono rischiano di consegnare le chiavi degli stadi alla frangia aggressiva del tifo, esponendo società e abbonati normali al ricatto di pochi violenti che possono dire: «Qui comandiamo noi: o si fa a modo nostro o noi violiamo le regole e voi pagate». Questo ricatto è figlio di un problema annoso: le società hanno accettato da tempo immemorabile, di scendere a patti con i tifosi peggiori e adesso si accorgono di avere le mani legate. Verrebbe da dire: problemi loro, se la sono voluta. Ed è vero, perciò le geremiadi delle società ci commuovono ben poco. Ma è un fatto che in questo modo si consuma comunque un’ingiustizia, perché a pagare lo scotto delle porte chiuse sono alla fine i tifosi veri e sani, quelli che hanno pagato l’abbonamento per fare il tifo correttamente e che alla fine escono, come si dice, "cornuti e mazziati": prima costretti a convivere con i violenti, i maleducati, i ricattatori e poi costretti a pagare per loro.

La ricetta facile facile ovviamente non c’è: ma due cose si devono certamente fare. La prima è che al giudice sportivo arrivino segnalazioni basate su criteri chiari e uniformi  secondo le direttive che la Federazione dovrà al più presto dettare (più semplice), la seconda  è spezzare per sempre le relazioni pericolose tra ultrà e società di calcio. E qui tocca alle società (più difficile).

 
 
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