Scrittori migranti o immigrati. Scrittori italiani di origine straniera. O anche scrittori stranieri in lingua italiana. «Cosa siamo? Ci hanno affibbiato tanti nomi e definizioni per racchiuderci in una serie di cassetti o contenitori. Io, però, rivendico il nome di scrittore, punto e basta». Paul Bakolo Ngoi è nato 50 anni fa nella Repubblica democratica del Congo. Vive in Italia dal 1981: la prima volta che arrivò qui, racconta, fu per un viaggio con i suoi genitori. Suo nonno fu uno dei primi scrittori in lingua francese in Congo. Lui ha pubblicato il suo primo libro nel 1994. In italiano, la lingua che, da francofono, ha scelto per la comunicazione in forma narrativa. Da allora Bakolo, che lavora anche come mediatore culturale, ha scritto numerosi libri, dedicandosi soprattutto alla narrativa per ragazzi. «Se sei di origine straniera al mondo editoriale vai bene solo se scrivi di Africa, di sofferenza, di povertà, in pratica di quelle storie che gli italiani non possono scrivere. Ma se provi a parlare di altro, dei temi che trattano anche gli scrittori italiani, allora non vai più bene».
Bakolo è stato uno dei relatori, il 10 novembre a Castello Sforzesco di Milano, della tavola rotonda "Scrittori in cammino, manifesto dell'impegno sociale", nell'ambito degli Stati generali dell'immigrazione qualificata "Il merito mette radici". Insieme a Bakolo, altri scrittori italofoni di origine straniera - l'uruguayano Milton Fernández, la bosniaca Elvira Mujcic, la brasiliana Rosana Crispim da Costa e il senegalese Cheikh Tidiane Gaye, ai quali si è poi unito Pap Khouma, anche lui senegalese - hanno riflettuto sul ruolo sociale e culturale che possono svolgere gli scrittori detti comunemente migranti per la costruzione di una nuova idea di cittadinanza fondata sull'inclusione di culture diverse, protesa verso un futuro sempre più multietnico e plurale.
Bakolo critica duramente e senza mezzi termini l'inadeguatezza dell'editoria italiana, la sua incapacità di riconoscere il cambiamento in atto, che, del resto, non è altro che l'incapacità della società italiana nel suo insieme: «L'editoria ci vuole catalogare, non ci riconosce come italiani. Capita che se uno scrittore di origine straniera manda una sua opera a un editore, quello gli chiede chi gliel'ha scritto in italiano. Eppure, noi scrittori possiamo dare un contributo importante alla costruzione della nuova Italia». Il senso di inadeguatezza si riflette nelle parole, che limitano la realtà invece di spiegarla: «Io vivo fissa in Italia da 17 anni», aggiunge Elvira Mujcic, traduttrice letteraria oltre che scrittrice, autrice di saggi e testi teatrali, nata in Serbia e vissuta a Srebrenica, in Bosnia, fino al 1992, «sono emigrata una volta tanti anni fa, non sto continuando a migrare, ora sono ferma».
Rifiutare le categorie imposte dal mondo editoriale e dalla società non
vuol dire, certamente, rinunciare alla propria storia, al proprio
vissuto. Lo afferma con forza Milton Fernández, scrittore, regista e drammaturgo, approdato in Italia nel 1985,
autore di vari libri e racconti: «Io sono e sarò sempre un emigrante.
Perché l'esperienza della migrazione è qualcosa che ti segna per tutta
la vita. Ma è fondamentale capire che noi emigranti, oltre che portatori
di nostalgie e di Paesi immaginari, siamo anche portatori di valori.
Dato che noi scrittori viviamo di parole, vorrei ricordare che fra le popolazioni del Chiapas, in Messico, la parola più usata è "noi", ed
è questa parola che ha permesso loro di resistere alle conquiste e alle
sofferenze. In alcune zone dell'Africa esiste un'espressione zulu,
"ubuntu", che si può tradurre come "io sono perché noi siamo". Le
categorie tendono a dividere. Io credo che dobbiamo lavorare su ciò che
unisce».
Arrivati alla terza edizione, dopo quelle del 2006 e del 2009, gli Stati
generali dell'immigrazione sono promossi dall'italo-camerunense Otto
Bitjoka e dalla Fondazione Ethnoland da lui presieduta a Milano: una
giornata di incontro, riflessione e dibattito, un'occasione per gli
immigrati, ma anche peri gli italiani, di confrontarsi sul futuro della
multietnicità a Milano e in Italia, sulle strade da percorrere per
costruire una nuova cittadinanza fondata sull'inclusione di tutte le
etnie e le culture presenti nel Paese, nel pieno rispetto della
legalità. Nell'arco della giornata si è discusso del ruolo delle seconde
generazioni,
di invisibilità dei talenti stranieri in un'Italia che ancora stenta a
riconoscere e affermare la meritocrazia. A conclusione, la Fondazione
Ethnoland ha presentato il manifesto "La nuova cittadinanza", un
decalogo di princìpi, intenti, aspirazioni che gli immigrati in Italia affermare nero su bianco (e chiedono agli italiani di affermarli insieme a loro): dal riconoscimento della diversità culturale come ricchezza e risorsa e non come problema, fino alla rivendicazione del merito individuale come motore del progresso del Paese.
«Gli Stati generali dell'immigrazione sono un appuntamento ciclico, che vogliamo proporre ogni tre anni, per registrare il cambiamento in atto. Nel 2006 il filo conduttore era "Ci siamo"», spiega Bitjoka, che vive a Milano da più di 35 anni, «nel 2009 "Legittime aspettative". Quest'anno è stato "Il merito mette radici"». Un percorso ideale che riflette il cammino dell'immigrazione: «Prima l'affermazione della presenza degli immigrati in Italia, poi la conquista di quelle aspettative legittime che nessuno ci può togliere. Ora vogliamo affondare le nostre radici qui. E' giunto il momento per gli immigrati di diventare protagonisti: mai più niente per noi senza di noi».