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lunedì 20 gennaio 2025
 
 

Palestina, serve ancora uno Stato?

02/11/2011  Daniel Levy, consigliere di ministri e primi ministri d'Israele, e Sari Nusseibeh, rettore dell'Univeristà islamica di Gerusalemme, a confronto.

Da un lato, la sagoma smunta del caporale Gilad Shalit, cittadino israeliano e francese, carrista, per cinque anni prigioniero delle milizie di Hamas. Dall’altro, l’esultanza dei palestinesi alla liberazionedi un migliaio di detenuti, usciti dalle prigioni di Israele in cambio, appunto, del solo Shalit.

     Su tutto, anche sul dramma di tante vite comunque sconvolte, la sensazione di una coazione a ripetere che offre pochi sbocchi. Hamas festeggia, ma che cosa? Molti dei suoi torneranno a casa e non troveranno lavoro, altri riprenderanno le armi per uccidere o morire: quali sono i passi avanti? Israele accoglie con compostezza il ritorno del suo soldato, ma nella stasi delle trattative con la parte palestinese non violenta, sigla un accordo con quella violenta. Siamo pessimisti? Ma allora perché in pochi giorni sono morte 12 persone, tra le quali un civile israeliano ucciso da un razzo sparato da Gaza?

     Forse ha ragionechi dice: se vogliamola pace, impariamo a pensare in modo diverso. Daniel Levy e Sari Nusseibeh, che abbiamo incontrato durante un seminario dell’Alta cuola di economia e relazioni internazionali dell’Università Cattolica di Milano, ci regalano molti spunti per un modo diverso di affrontare il problema.

Un bel problema, la democrazia. Daniel Levy le stanze della politica d’Israele le ha visitate tutte: consigliere politico del ministro della Giustizia Beilin (2000-2001), nell’ufficio di Ehud Barak quando questi era primo ministro, nella squadra di negoziatori dell’accordo “Oslo 2” quando il premier era Rabin. Ma non gli manca il gusto dell’opinione controcorrente, maturato forse alla fine degli anni Ottanta, quando era il responsabile dell’ufficioAnti-razzismo dell’Unione degli studenti di Cambridge.

     Per cui, è proprio da lui dire che «la situazione in Israele, oggi, è simile a quella che si vede in Italia».

– E cioè?

     «Ha visto le grandi manifestazioni a Tel Aviv? Le 400 mila persone in corteo? Da noi, come da voi, si avverte un fermento, un vento di cambiamento. La gente scende in strada, chiede un cambio di rotta, ma come e quando questo avverrà, e a quale alternativa farà strada, è per ora impossibile dirlo».

– D’accordo con l’analogia. Ma tutto questo in che modo riguarda l’eterno conflitto tra Israele e i palestinesi e la mossa di Abu Mazen di chiedere all’Onu il riconoscimento dello Stato di Palestina?

     «Israele, secondo me, ha ceduto a una sorta di “statolatria” in omaggio alla quale ha perso alcuni dei suoi valori fondativi. Nel Paese, gli spazi di democrazia si sono piano piano ridotti. E questo è pericoloso soprattutto nella situazione attuale, quando cioè nel resto del Medio Oriente la democrazia fa qualche piccolo passo avanti».

– Più democrazia non è un vantaggio?

     «Non necessariamente. Prendiamo la crisi con la Turchia: essa è stata in gran parte causata dal fatto che anche il premier turco Erdogan ora deve fare i conti con un’opinione pubblica che pensa in proprio e a cui deve render conto. In un Medio Oriente che, in un modo o nell’altro, sta cambiando, diventa sempre più difficile per Israele garantire la propria sicurezza con le vecchie strategie e nello stesso tempo essere accettato dal resto del mondo. Il che significa: per il bene di Israele, bisogna risolvere il problema dei palestinesi. Cioè, affrontare seriamente la questione dello Stato».

– Come giudica la mossa palestinese di chiedere il riconoscimento dell’Onu?

     «Molto astuta, anche se non produrrà niente. Proprio per questo, la vera sfida per i palestinesi arriva adesso: controllare l’inevitabile delusione della gente e impedire esplosioni di violenza. Da questo punto di vista è decisivoil processo di riconciliazione tra Al Fatah eHamas, tra Cisgiordania e Gaza. E se Hamas non deciderà di rispettare le leggi internazionali, tutto sarà inutile. Anzi, peggio».

– Detto questo di Hamas, pare difficile che Israele possa cambiare le proprie strategie in tema di sicurezza...

     «Israele può fare molte cose. Potrebbe, per esempio, bloccare o ridurre gli insediamenti. Potrebbe, più realisticamente, ritirarsi dietro la Barriera di protezione, quella che voi chiamate Muro, e poi stabilire un “corridoio” di cinque anni per risolvere il problema. Con ogni probabilità non farà nulla, perché la maggioranza politica è per la linea dura. Una cosa però mi pare sicura: se i palestinesi lanciano una mobilitazione pacifica per i diritti civili, sull’esempio della cosiddetta Primavera araba, e riescono appunto a mantenerla pacifica, l’isolamento di Israele non farà che crescere. Con grave danno per il Paese».

– E quindi, su che cosa possiamo puntare?

     «Al momento possiamo soprattutto sperare in un cambio di mentalità degli israeliani. E come dicevo prima, qualche segnale in questo senso sta già arrivando. Anche se questi non sono gli anni Novanta, l’idea di un quick fix, una soluzione rapida, non è più sostenibile. Non ci crede più nessuno».

Uno Stato per i palestinesi? Ma a che servirebbe? Sari Nusseibeh, studi a Oxford e dottorato in Filosofia islamica a Harvard, rettore dell’Università palestinese Al Quds di Gerusalemme, già rappresentante dell’Autorità palestinese a Gerusalemme, se lo chiede da qualche tempo. Ha però appena pubblicato un libro (What is a Palestinian State worth?) in cui quelle due domande sono esplicite già nel titolo.

     Ma come, proprio lui che a suo tempo aveva rischiato la vita proponendo di rinunciare al “diritto al ritorno” per i palestinesi insediati negli altri Paesi del Medio Oriente, pur di avere uno Stato? Dobbiamo leggere in questa posizioneuna critica alla mossa di Abu Mazen, che invecechiede all’Onu di riconoscere lo Stato che ancora non c’è?

     «No, non è così. Quella di Abu Mazen è stata una buona mossa, se non altro perché ha riportato il mondo a interessarsi del problema palestinese e dell’occupazione di Israele. Ma la mia domanda è: fatta la mossa, che cosa succederà? E la risposta è: nulla, perché la parte del mondo che potrebbe fare qualcosa non ha alcuna intenzione di muoversi. Che cosa vogliamo fare, sprecare altri vent’anni in trattative inutili? Contro la tradizionale soluzione dei due Stati, lo Stato ebraico accantoa uno Stato palestinese, giocano ormai troppi fattori decisivi».

– Quali?

     «Primo, il vuoto politico negli Usa e l’impotenza di Obama. Secondo: l’orientamento prevalente in Israele. Per arrivare a un accordo accettabile dai palestinesi, si dovrebbe produrre un cambiamento di dimensioni enormi, inimmaginabili. Ricorda tutto il rumore che si fece quando Ariel Sharon ritirò 20 mila coloni da Gaza? Bene. Pensi che ora in Cisgiordania vivono 600 mila israeliani, e mi dica se è possibile che si ritirino. E poi anche i palestinesi sono divisi tra loro. L’unica soluzione è cominciare a pensare in modo radicalmente diverso».

– E quindi?

     «La mia proposta è: non più due Stati uno accanto all’altro, ma una federazione di dueStati su una sola terra».

– Quale sarebbe il vantaggio per Israele?

    
«La fine del conflitto, naturalmente. Ma la mia idea dovrebbe piacere pure alla destra israeliana, ai politici come Lieberman per esempio, anche per un’altra ragione. I palestinesi, in questo modo, non chiedono né di cacciare gli israeliani dalla Palestina né, soprattutto, di opporsi a che lo Stato ebraico sia, appunto, ebraico».

– E per i palestinesi?

     «La conquista dei diritti civili. Oggi, con l’occupazione israeliana, ne sono per la gran parte privi. Non possono muoversi liberamente all’interno del Paese, non possono entrarvi e uscirne liberamente, le famiglie sono divise, la libertà d’impresa è ovviamente soffocata e così via. È un’occupazione il cui costo politico è a carico di Israele ma il cui costo fisico, personale, ricade sui palestinesi. Nell’idea della federazione io vedo solo vantaggi per tutte le parti. E aggiungo un’altra considerazione. Per molti anni a noi palestinesi è stato detto: non chiedete di diventare cittadini di Israele, abbiate pazienza e con il tempo vi daremo uno Stato. Nel frattempo, è stata piano piano erosa la base, anche territoriale, di questo ipotetico Stato. Bisogna uscire da questa spirale, perché il tempo che passa rende le cose ancor più difficili».

– Lei ha detto che l’iniziativa all’Onu di Abu Mazen non porterà a nulla. Non teme una reazione violenta a questo nulla?

     «No, affatto. Anzi, invito tutti a stare tranquilli: i palestinesi sanno bene che cosa vuol dire l’occupazione, i rischi che si corrono, i limiti a cui bisogna adattarsi. Penso, invece, che la frustrazione renderà ancora meno verosimile la soluzione dei due Stati e più credibile l’idea di una federazione».

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