Mahmoud con la figlia Amal (foto F. Scaglione).
Non è semplicissimo, bisogna investirci un po' di tempo ma vale la pena di farlo. Voglio dire, passare da uno di quei dibattiti di cui giustamente abbonda Expo 2015 (la cura del pianeta, la condivisione delle risorse...) alla Stazione Centrale di Milano. Venticinque minuti di metropolitana per passare dalla teoria alla pratica, dalle parole ai fatti.
Quelli che cercano un po' di condivisione delle risorse li vedi un po' ovunque. In giro per la stazione, i più sperduti, qualcuno con lo sguardo fisso sulle vetrine, oppure (fino a qualche ora fa) appollaiati sui mezzanini, dove associazioni come Sos Siria o Progetto Arca cercano di tenere un po' d'ordine e portare un po' di aiuto. Quando ci sono andato io, i profughi (per molti, gli "invasori") accampati in stazione avevano mangiato pasta al pomodoro, 200 pasti procurati dalla Chiesa evangelica. Ogni giorno qualcuno cerca di dare una mano come può: "Qui non abbiamo cucina né magazzino", spiega una delle volontarie, "quindi bisogna improvvisare una volta".
Da mezzanotte alle cinque la Stazione chiude ma per fortuna lo spirito italiano ci viene in soccorso: i gabinetti restano aperti e ci sono volontari che passano la notte qui per organizzare gruppetti di profughi e guidarli, a turno, ai gabinetti.
Sara, italiana di seconda generazione, un bel viso sorridente sotto il velo, fa la volontaria qua. E mi aiuta a parlare con Mahmoud. E' un siriano di Aleppo. Nel 2012, quando la guerra e l'Isis hanno cominciato ad avvicinarsi alla sua città, ha preso i tre figli, la moglie e la madre e in macchina è partito: Siria, Giordania, Egitto, tutta la strada fino in Libia. "All'inizio non stavamo male", racconta: "Faccio il muratore e il marmista, lavoravo, potevo mantenere la famiglia. Avevo e ho un solo sogno: far studiare i miei figli. Poi anche in Libia è crollato tutto. Ero a Bengasi, mi sono spostato a Sirte, ma anche lì, armi, sparatorie, bombe. Proprio come la Siria da cui eravamo scappati. Così ho deciso: porto tutti in Europa".
Con Mahmoud c'è Amal, la figlia. Il suo nome vuol dire Speranza. La speranza di tutti loro, spiega, non è di restare in Italia. Affatto. "vogliamo andare in Germania", dice. Lassù non hanno parenti né conoscenti, ma hanno sentito dire che c'è lavoro e una maggiore accoglienza dei profughi. "In questi giorni", spiega una delle volontarie di Sos Siria, " si sono ammassati qui soprattutto siriani ed eritrei. Tra loro ci sono profonde differenze. Dalla Siria arrivano famiglie intere, gente che ha preso qualche informazione prima di partire, che quasi sempre si porta dietro un piccolo gruzzolo di risparmi. Sanno che da noi ci sono problemi, anche economici, e sono decisi a raggiungere i Paesi del Nord. Con gli eritrei la storia è molto diversa".
Gli eritrei viggiano da soli o in piccoli gruppetti, sono in grande maggioranza maschi giovani. Scappano da un Paese-lager, dalla miseria e soprattutto da un servizio militare durissimo che dura quasi tutta la vita. "Gli eritrei", spiegano ancora quelli di Sos Siria, "in sostanza scappano e basta. Vogliono andare il più lontano possibile, quasi qualunque posto per loro è buono".
E poi, a cascata: i siriani sono un po' più organizzati, gli eritrei più affannati e miseri. La scabbia, così facilmente usata dalla propaganda della destra, colpisce più loro, che prima del viaggio in mare hanno attraversato deserti e vissuto in condizioni disperate.
Mahmoud e i suoi hanno fatto tre giorni su un barcone tra le onde, prima di sbarcare a Crotone. Si raccontano con un sorriso, anche se la speranza è diventata più dura da quando, durante il viaggio, sono stati derubati dei 1.200 euro che erano tutta la loro fortuna. Intorno a loro, adesso, signore col trolley che corrono verso i treni, due belle ragazze in minigonna che distribuiscono volantini pubblicitari e li guardano perplesse, le luci intermittenti dei tabelloni pubblicitari che raccontano dell'ultimo telefonino e della moda per l'estate. Amal vuol dire speranza.