Stefano Baldini, che cantò a squarciagola l’inno con la corona d’alloro in testa ad Atene 2004, al termine della maratona più simbolica che la storia ricordi dopo l’originale del 490 a.C., è uno di quelli che ce l’hanno fatta: oggi è direttore tecnico del settore giovanile della Federatletica, testimonial di alcune aziende, voce radiofonica. Tutti ruoli figli del suo passato sportivo certo, ma anche di un percorso di vita insolito per un campione.
Le va di raccontarlo?
«Subito dopo il diploma di ragioneria, finito il servizio militare, mi sono congedato e sono stato assunto dalla Calcestruzzi Corradini, ditta che era ed è tuttora sponsor della mia società. Timbrare il cartellino mi ha permesso di rendermi conto di che privilegi avevo facendo una vita di sport ad alto livello: dal 1992 al 1996 ho lavorato 28 ore a settimana, con permessi speciali per le gare. Lavoravo in amministrazione, ufficio clienti, mi occupavo della fatturazione dei nostri prodotti: materiali da costruzione».
Quell’esperienza ha lasciato segni?
«Sì, era un’azienda con un centinaio di dipendenti, avevo responsabilità e quell’esperienza ha inciso sulla mia vita con una doppia valenza: umana da un lato, perché mi ha fatto apprezzare davvero il privilegio della mia carriera sportiva; professionale dall’altro, perché mi ha lasciato sempre la consapevolezza che lo sport non sarebbe durato tutta la vita e che quindi un giorno nel mondo del lavoro sarei dovuto rientrare. Sapevo di doverci arrivare pronto».
Si direbbe che nella media si pensi a quel momento meno di come ha fatto lei. E’ così? «E infatti oggi il ritiro del campione è uno dei problemi principali dello sport di livello medio-alto di tutte le specialità. Le esperienze che ho fatto mi sono servite, ho completato sul campo la mia formazione scolastica – seria non raccattata come un pezzo di carta qualsiasi ndr. -. Sono stati anni impegnativi in cui ho costruito le fondamenta per una carriera solida anche dal punto di vista mentale: la routine lavorativa ti aiuta a vivere meglio anche la routine sportiva, nella sua ripetitività. Se lo sport non è la sola cosa che fai, capisci che è bello andare via perché è bello tornare a casa».
Giusto ammettere che il suo è stato un percorso d’eccezione…
«Oggi sarebbe più difficile fare un percorso così, ma io sono sempre stato preoccupatissimo del passaggio da una vita sportiva d’alto livello lunga a quello che sarebbe venuto dopo. Sono stato professionista a tempo pieno per una quindicina di anni, dai 25 ai 35, sono stato fuori molto dal mondo del lavoro. Avrei potuto tornare a fare l’amministrazione, il mio ufficio mi avrebbe ripreso, però avevo anche la consapevolezza di aver accumulato esperienze che avrebbero potuto aprirmi altre strade. Temevo, però, soprattutto l’impatto mentale di dover lasciare una vita che ami e ricominciare da zero». Quanto ci ha messo?
«Io pochissimo, perché ero allenato. Il fatto di aver già lavorato mi aveva avvantaggiato sul percorso che io mi auguro facciano tutti gli atleti giovani con cui oggi mi confronto: entrare nello sport professionistico che dura 10-15 anni a livello 1 e uscirne a livello 15, cresciuti da tutte le esperienze avute. Solo così potremo dire di aver formato, non solo campioni, ma uomini e donne».
E invece di solito che succede?
«Più lo sport è professionistico, più si vive chiusi in una bolla. Capita che escano come sono entrati, che a 35 anni siano ancora come a 18, senza aver imparato una lingua, incapaci anche solo di muoversi da soli perché li hanno sempre trasportati, da un albergo all’altro da uno stadio all’alto: uno spreco, e un problema che dobbiamo risolvere».