C’è gran fermento ad Alessano (Lecce), un paese di poco più di 6 mila anime immerso nella terra salentina, ricchissima di ulivi, a pochi chilometri dal mare. C’è gran fermento e un gran gioioso parlare: mancano poche ore all’arrivo di papa Francesco e i preparativi fervono per accogliere questo visitatore così speciale. La piccola piazza del paese, racchiusa tra la chiesa madre di San Salvatore e la Torre dell’Orologio, al numero 41 custodisce la casa familiare del suo cittadino più illustre, don Tonino Bello: qui la porta è sempre aperta. Sede della fondazione che ne porta il nome, questa casa è un luogo di accoglienza e di memoria, ma soprattutto di incontro. Ed è qui che conosciamo Stefano Bello, 44 anni compiuti il primo aprile, uno dei nipoti.
LA PASSIONE PER LO SPORT
«Zio Tonino l’ho vissuto per vent’anni. Era lo zio che tutti volevano avere». Esordisce così nel suo racconto e, se gli si chiede cosa è stato zio Tonino per lui, non esita un attimo a rispondere: «È la persona che mi consolava quando gli altri mi sgridavano. È la persona che a quindici anni mi ha insegnato a guidare la macchina, che mi ha insegnato a nuotare nel mare di Leuca e a giocare a calcio… Vedete tutte quelle coppe che ci sono in casa? Sono il frutto del fatto che era un grande sportivo. Lui mi ha trasmesso questa passione e mi ha radicato nell’anima i valori che lo sport ha dentro».
E prosegue: «Tutti noi nipoti aspettavamo con ansia che venisse a trovarci, nei momenti liberi dai suoi numerosi impegni: per noi era un’attesa trepidante, perché sapevamo che qualcosa di straordinario stava sempre per succedere. Sapeva coinvolgerci tutti». Stefano, infatti, non è l’unico nipote: ci sono anche Federica, sua sorella (figli di Marcello Bello), e poi Raffaella e Francesca, le sue cugine (figlie di Trifone Bello). «Appena arrivava da Molfetta ci portava subito al mare insieme con altri amici e ci faceva fare due chilometri e mezzo a nuoto. Durante quelle nuotate, che erano dei veri momenti di convivialità, ci raccontava della bellezza del creato, citava versi in latino, recitava delle poesie e ci raccontava che la nostra terra non è un divisorio tra lo Ionio e l’Adriatico, ma è un punto d’incontro. Ci diceva che la nostra Puglia è un arco di pace proteso verso l’Oriente».
Gli occhi di Stefano brillano di una luce intensa: quella stessa luce che ricorda di aver visto negli occhi dello zio in un momento particolare della sua vita. Nonostante siano passati già 25 anni dalla sua morte, infatti, i ricordi sono nitidi e ancora colmi di emozione: «Lui mi insegnò a nuotare portandomi sulle spalle e, quando capì che avevo acquisito le necessarie capacità, decise di lasciarmi da solo in acqua. Non dimenticherò mai la luce nei suoi occhi perché aveva capito di avermi trasmesso questa sua passione». Ciò si tradusse ben presto in continue gare di nuoto: «Nei quindici anni successivi, prima della sua morte, gareggiavamo a stile lib ero, lui ed io, e puntualmente le gare si concludevano con una sua vittoria perché in mare era imbattibile. Non solo era bravo, ma aveva proprio il fisico del nuotatore: spalle larghe e braccia possenti».
«È STATO UN PRETE FUORISERIE»
Il 20 aprile 1993, a 58 anni, don Tonino viene a mancare, dopo una malattia che lo provò molto fisicamente, ma non gli tolse mai il fervore della missione: «Dopo la sua morte, ho chiuso zio Tonino nel mio cuore e ho iniziato a conoscere don Tonino, colui che mi ha insegnato che la pace va usata perché non basta il silenzio delle armi, ma è necessario usare le armi della pace e dell’obiezione di coscienza. Secondo me, lo zio non è stato un superuomo, ma è stato un prete fuoriserie: straordinario nella sua normalità. Una persona che ha messo in pratica le parole del Vangelo, niente di più, e che mi ha dato la speranza dei sogni diurni. Nella vita – me lo ha insegnato lui – bisogna osare», incalza Stefano, che nel racconto usa un po’ la parola «zio» e un po’ la parola «don». E spiega: «Nel tempo ho iniziato ad avere una forma di sano disagio nel chiamarlo zio Tonino perché era diventato una persona planetaria e, chiamandolo così, mi sembrava di sottrarlo alle altre persone. Oggi capisco che il suo pensiero è qualcosa da diffondere in ogni forma e in ogni luogo».
Il racconto si infarcisce di episodi legati al ministero episcopale di don Tonino. Ci racconta di quelle volte in cui andavano a trovarlo a Molfetta e, arrivati nelle stanze del vescovado che riservava loro, «trovavamo delle persone, dei poveri, che dormivano e quindi dovevamo rimetterci in macchina e tornare a casa». E, ancora, di quando la Cinquecento dello zio fu rubata e, di fronte all’indignazione del nipote, don Tonino disse: «Stefano, tu non hai capito che questo è il modo dei poveri per gridare la loro povertà».
«Io non ho mai avuto grandi raccomandazioni da parte sua», conclude Stefano. «L’unica che ricordo la ricevetti da lui in punto di morte: “Stefano, vivi una vita trasparente. Sii onesto nella tua vita, perché questo ti aiuterà a riconoscere la povertà delle persone e a meglio disporti per servirla”».
Oggi Stefano lavora come educatore in una cooperativa sociale che si occupa di disagio psichico – «anche qui c’è l’impronta di zio Tonino che la avviò come opera d’amore verso gli ultimi, accendendo un mutuo a suo nome per sostenerla» – dove è approdato dopo avervi prestato servizio come obiettore di coscienza. Stefano ha anche un figlio, Tonino, che conosce la storia di questo zio che «lavorava per la pace, giocava a calcio e aiutava i poveri» e del quale porta il nome. Un nome che gli piace e non gli pesa. Così il testimone passa. E la profezia di zio-don Tonino resta.
Per il 25° anniversario della scomparsa e in occasione della visita di Papa Francesco in Puglia