Stefano D'Orazio con gli altri Pooh ricevuti da Giovanni Paolo II
Fa sempre molta tenerezza vedere un uomo maturo commuoversi mentre racconta una storia. La storia è quella di un figlio che per la prima volta, spulciando tra i suoi vecchi vestiti, si rende conto che la mamma è anche una donna e così comprende quanti sacrifici ha fatto per lui. È il testo di Eleonora, mia madre, il primo che, nel 1975, Stefano D’Orazio ha scritto per i Pooh. Ma non gli sono venuti i “lucciconi”, come dice lui, perché quella storia non è autobiografica. E nemmeno per la nostalgia del gruppo con cui ha condiviso 38 anni di vita. No, si è commosso perché nel suo cuore è rimasto «un bambino a cui piace volare con la fantasia». È per questo che da quando, nel 2009, l’ex batterista ha lasciato i Pooh, si è messo a scrivere favole, poi trasformate in musical: prima Aladin, poi W Zorro e ora Cercasi Cenerentola, che ha debuttato a Roma l’11 febbraio e girerà l’Italia fino a maggio. Seduto dietro le quinte del teatro dove si stanno svolgendo le prove, Stefano è un fiume in piena mentre racconta la sua personalissima rivisitazione della favola, in cui il Principe Azzurro è uno scapolo impenitente costretto dal padre ritiratosi ad Acapulco a trovarsi una moglie, mentre Cenerentola è quasi una femminista. Il tutto ambientato nella gioiosa atmosfera degli anni ’50, quelli dell’infanzia di Stefano, scanditi dal ritmo del rock’n’roll. «A casa era mio padre a raccontarmi le favole, mentre io lo ascoltavo seduto sul letto. Più che raccontarle, le recitava. Ricordo ancora il suo vocione mentre declamava: “Ora arriva il lupo cattivo!”. Mia madre era, diciamo così, più didascalica. Arrivava e mi intimava: “Adesso vai a dormì”».
Dal 30 settembre 2009, data dell’ultimo concerto con i Pooh, Stefano confessa di non aver mai più toccato una batteria. «Di recente mi sono capitate tra le mani due bacchette che tenevo per caso in cucina. Istintivamente, le ho fatte passare tra le dita come facevo prima dei concerti per scaldarmi. Mi sono cadute subito. Il messaggio è arrivato chiarissimo». Nessun rimpianto, quindi. «I rimpianti li hai se un’esperienza conclusa avrebbe potuto darti di più. Ma io dai Pooh ho ottenuto molto più di quanto avrei osato immaginare: abbiamo inciso 350 canzoni e tenuto oltre 3.500 concerti». In questo calcolo, sono comprese le due esibizioni della band nella sala Nervi del Vaticano, davanti a Giovanni Paolo II, nel 1994 e nel 2002. «Quell’ultimo incontro», ricorda Stefano, «fu molto particolare. La sera prima avevo avuto una terribile colica renale, per cui mi presentai dal Papa imbottito di antidolorifici. Lui disse parole bellissime sulla responsabilità che avevamo noi musicisti in un mondo in cui la cultura passa sempre meno attraverso i libri. Io, forse perché ero un po’ intontito dai farmaci, gli risposi: “Santità, però pure fare il Papa non deve essere una passeggiata”. Scoppiò a ridere, ma poi notò che non stavo bene. Io gli spiegai il mio problema e lui chiamò il suo medico che tirò fuori dalla sua valigetta una boccetta: mi disse di prendere alcune gocce se mi fossi sentito male. Appena usciti, partimmo subito per un altro concerto e, dopo pochi chilometri, arrivò un’altra colica. Presi le gocce e il dolore scomparve all’istante. Mi verrebbe da dire: un miracolo!».