Il medico italiano Marzio Babille è il coordinatore delle attività dell’Unicef in Iraq. Ci risponde da Erbil, capitale del Governo regionale curdo, dove è appena rientrato da Amerli, la cittadina turcomanna che le forze sciite, con l’appoggio dei raid americani, hanno liberato il 31 agosto dopo 83 giorni di assedio dei miliziani del cosiddetto Califfato.
«Stiamo lavorando», dice, «per evitare di perdere una generazione di bambini e adolescenti, ma il rischio è forte; l’Unicef prova a raggiungere tutti i minori, indipendentemente dall’etnia e dalla religione, purtroppo in questo momento non è possibile accedere alle zone controllate dagli estremisti sunniti dell’Isis».
Da gennaio, l’Unicef ha fornito aiuti salvavita a 641.243 sfollati in tutto l’Iraq, 360 tonnellate di aiuti umanitari per oltre 314 mila profughi nel solo mese di agosto, mentre ad Amerli i primi camion con cibo e acqua sono arrivati il giorno dopo la liberazione.
– Com’è la situazione oggi?
«Quando sulla strada da Kirkuk si arriva a Tuz Khurmatu, le bandiere con la mezzaluna bianca dei turcomanni sostituiscono quelle dei curdi. Nei 20 km fino ad Amerli, si respira un clima ancora di tensione e si incontrano case bombardate, continui posti di blocco, segni della battaglia come armi abbandonate dall’Isis che prima appartenevano all’esercito regolare iracheno. Dei 34 villaggi del distretto di Amerli, il 70% degli abitanti, che erano delle diverse etnie, non c’è più: i turcomanni sciiti sono scappati verso il Kurdistan, i sunniti verso il territorio dell’Isis per paura di rappresaglie. All’interno della cittadina liberata, sono rimaste 15-16 mila persone (3 mila bambini) prostrate dall’assedio. Alcuni feriti continuano ad arrivare al centro sanitario, la popolazione dipende dal cibo che è ben distribuito dalle autorità locali, i bambini non possono tornare a scuola ma almeno escono a giocare nelle strade».
– Che racconti avete avuto dell’assedio?
«Mancavano le medicine, il cibo e l’acqua. La corrente elettrica qui arriva dalla centrale di Mosul, in mano all’Isis, e quindi è subito saltata ed è stata usata come arma per prostrare la popolazione; anche adesso non c’è. Senza corrente, non funzionavano, e ancora non funzionano, le pompe per estrarre l’acqua potabile dai pozzi; le famiglie sono state costrette a vivere solo a pane ed acqua, bevendo acqua salata e pericolosa. Un farmacista ha raccontato della morte di due bambini e sette donne in gravidanza durante l’assedio».
–Qual è l’intervento dell’Unicef?
«Insieme ad altre agenzie delle Nazioni Unite, siamo stati i primi ad entrare in città; nelle 48 ore successive alla liberazione, abbiamo fatto arrivare 15 camion con più di 100 tonnellate di aiuti salvavita (8.490 bottigliette d’acqua, razioni alimentari, cibo terapeutico per bambini malnutriti, kit per la reidratazione orale) e kit igienici (sapone, asciugamani). Abbiamo subito avviato vaccinazioni contro la poliomielite e il morbillo per i bambini. Il 3 settembre, in un incontro con il sindaco abbiamo concordato tre priorità: continuare a provvedere al cibo, rendere indipendente la distribuzione dell’energia elettrica e dell’acqua potabile, proteggere l’infanzia riaprendo le undici scuole primarie di Amerli».
– Chi sono i turcomanni? Perché sono attaccati dall’Isis?
«I criminali dell’Isis sono estremisti sunniti che hanno pianificato la pulizia etnica: “pulire”, cioè annientare, chi è diverso. I turcomanni, 80-90 mila in Iraq, sono doppiamente una minoranza: etnica, poiché discendono dai turchi ai tempi dell’Impero ottomano (parlano l’arabo e un dialetto turco), e religiosa, perché musulmani sciiti. Gli sciiti sono la maggioranza nell’intero Paese, ma minoranza in questa regione del Nord di musulmani sunniti. Proprio perché considerati seguaci di una “forma errata” di Islam, nei piani dell’Isis hanno una sorte ancora peggiore dei cristiani, a cui nella maggior parte dei casi è stato almeno concesso di scappare. Per i turcomanni, come gli yazidi, è invece prevista la morte e da tempo sono nel mirino degli estremisti sunniti. È successo con attentati e autobombe già mesi fa, con le centinaia di morti nel villaggio di Beshir a inizio luglio e con l’offensiva jihadista contro Tal Afar. A giugno, da questa città i turcomanni si sono rifugiati nelle montagne del Sinjar, presso gli yazidi, da cui sono poi dovuti nuovamente scappare. Settecento, soprattutto donne e bambini, non sono riusciti a fuggire e ancora oggi sono tenuti prigionieri all’aeroporto di Tel Afar».
– Le tensioni tra sunniti e sciiti contano in questo scenario?
«Sì, anche se le ragioni sono più politiche che religiose. Secondo molti osservatori, il quadro è definitivamente saltato nel 2012-13, quando il governo di Baghdad, controllato da forze sciite, ha respinto tutta una serie di istanze dei sunniti e ha represso anche con spargimento di sangue alcune tribù sunnite che fino ad allora non avevano nulla a che fare con al Qaeda o l’Isis. Anche da qui nasce, complici le infiltrazioni dalla Siria, il risentimento sunnita sfociato in alcuni casi nella lotta armata dei criminali dell’Isis. Le tensioni hanno portato a un milione e mezzo di sfollati nel Paese, non tutti tra l’altro fuggono dall’Isis. Nella città di Khanaqeen, per esempio, ci sono 17.000 sunniti che hanno dovuto lasciare le loro case per mettersi al riparo dalle milizie sciite durante combattimenti nella provincia di Diyala, a nord-est di Baghdad».