Ludovico Bianchi
Sarebbe un bel segnale di maturità professionale, forse anche civile. Ma nella realtà quotidiana il discorso è più complicato. Se il nostro stipendio è più alto della media, rischiamo di provocare invidie e sospetti. Se è più basso, potremmo sentirci giudicati, sminuiti, perfino umiliati.
E poi c'è la questione della privacy: il contenuto della busta paga è da sempre considerato un dato strettamente personale. A che titolo qualcuno dovrebbe venirne a conoscenza?
La verità è che questi timori, pur comprensibili, non colgono nel segno. La Direttiva Europea 2023/970, approvata due anni fa e destinata a diventare legge anche in Italia entro il 7 giugno 2026, non ci obbligherà affatto a condividere con i colleghi il nostro cedolino. Non saremo costretti a rivelare quanto guadagniamo. Ma cambierà un principio fondamentale: l’opacità salariale non sarà più la regola.
Il cuore della questione: il divario retributivo di genere
In Europa, le donne continuano a guadagnare in media il 13% in meno degli uomini per ogni ora di lavoro. Un divario che resiste al tempo e alle riforme, spesso camuffato da contratti part-time, avanzamenti più lenti, premi distribuiti “a discrezione”.
Uno dei motivi principali? Nessuno sa quanto guadagnano davvero gli altri, e questa ignoranza protegge le disuguaglianze.
La nuova direttiva UE nasce proprio per colmare questa lacuna. D’ora in poi, ogni lavoratrice e ogni lavoratore avrà il diritto di conoscere le fasce retributive medie dei colleghi che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore, suddivise per genere e ruolo. Non si tratta, dunque, di spiattellare stipendi individuali, ma di ottenere dati trasparenti e comparabili. Se ci sono squilibri, vanno giustificati. Altrimenti, si parla di discriminazione salariale.
Addio al tabù, non alla riservatezza
In Italia vige da sempre il cosiddetto “segreto salariale”: il datore di lavoro non può diffondere i dati contenuti nella busta paga, che restano protetti dal diritto alla privacy.
La direttiva europea non nega questa tutela, ma impone alle aziende una nuova forma di trasparenza strutturale: le fasce salariali vanno comunicate su richiesta dei lavoratori, entro due mesi dalla domanda. E se la risposta è vaga o incompleta, si può chiedere un’integrazione.
Anche i contratti di lavoro dovranno cambiare: saranno vietate le clausole che impediscono ai dipendenti di parlare del proprio stipendio, e il datore dovrà ricordare almeno una volta all’anno che tutti hanno il diritto di conoscere (e condividere) la propria retribuzione, se lo desiderano.
Le imprese dovranno adeguarsi (e forse rivedere qualcosa)
Le aziende avranno tempo fino al 7 giugno 2026 per mettersi in regola. Dopo quella data, scatteranno le sanzioni. Ma più che le multe, a preoccupare le imprese è il potenziale effetto a catena: la trasparenza salariale potrebbe mettere in discussione anni di prassi discrezionali, bonus concessi “per meriti” difficili da quantificare, o trattamenti diversi a parità di ruolo.
Eppure, chi lavora con correttezza e coerenza non ha nulla da temere. La direttiva non chiede di livellare tutto, ma di motivare le differenze retributive in modo chiaro. Se uno stipendio è più alto, deve esserci una ragione oggettiva. E dimostrabile.
Un passo avanti culturale, più che burocratico
La vera sfida, però, è culturale. Per troppo tempo, parlare di soldi è stato un tabù. Il segreto salariale è diventato una norma sociale, più che legale. Ma questa reticenza ha avuto un costo altissimo, pagato soprattutto dalle donne, dai giovani e dai precari.
Mettere in chiaro quanto vale un lavoro e come viene retribuito significa rafforzare la dignità delle persone, non violarne la privacy.
E se qualche invidia nascerà? Forse sì. Ma sarà anche l’occasione per fare domande scomode e necessarie. Perché chi guadagna meno ha il diritto di sapere se è giusto così.