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martedì 29 aprile 2025
 
Tra storia e scienza
 

Che cos'è davvero l'etnia italiana che Lollobrigida vuole tutelare: una mescolanza senza eguali

12/05/2023  Chi sono gli italiani, diventati tali in una terra di migrazioni fin dalla preistoria, al centro di un crocevia unico di culture tra Europa, Nord Africa e Medioriente. Abbiamo provato a ricostruire la storia dell'etnia che il ministro Lollobrigida vuole proteggere

Basterebbe sfogliare la grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, non è difficile, è stata riedita di recente, per capire che già la lingua che, più o meno consapevolmente, parliamo e scriviamo è figlia di una complicata mescolanza di strati. Le parole che usiamo sono figlie del latino, di cui la nostra lingua è un’evoluzione, contaminato con quello che c’è stato prima, con quello che c'era accanto e con quello che è venuto dopo: un processo che solo la consapevolezza di ogni parlante e scrivente può governare, ma che pensare di fermare equivale alla pretesa di fermare il vento con le mani.

In un ideale giro linguistico da Nord a Sud incontriamo parole di derivazione per la gran parte latina, ma anche radici liguri, venete, celtiche, carniche, retiche, picene, umbre, etrusche... e poi albanesi, greche, arabe, ebraiche, longobarde, ostrogote, franche... che usiamo da millenni, perché sono le nostre, senza saperne conoscere più l’origine. Istruttiva la storia dei nomi dei luoghi, la parte storicamente più conservativa di una lingua, da cui spesso si parte per capire chi è passato di lì. A tutto questo vanno aggiunte le minoranze linguistiche sui confini, gli influssi delle dominazioni straniere nei secoli, le importazioni di lingue culturalmente influenti, si pensi a come il francese nel Settecento è stato presente tra le popolazioni colte di mezza Europa Russia compresa.

La storia racconta l’Italia come un crocevia di continuo passaggio e dunque di fermento e di più o meno lungo e faticoso adattamento: storie di campanili spesso in rotta di collisione tra loro, di dominazioni straniere (normanni, svevi, francesi, spagnoli, austriaci a spartirsi il territorio a seconda dei luoghi e dei momenti) che hanno reso accidentato e instabile il percorso dell’ideale risorgimentale dell’unità, «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie di sangue, di cor», per citare in tempi di 150° una definizione manzoniana nel Marzo 1821. Lo stesso Manzoni tra il 1821 e il 1840, cioè l’altro ieri, per dare una lingua italiana credibile a Renzo e Lucia e al proprio romanzo storico dovette costruirla. Gliela dobbiamo: è quella che tuttora condividiamo. S’è adoperato, anche dopo da senatore, per gettare le basi perché diventasse comune davvero, ma c’è voluto molto altro tempo.

Beppe Fenoglio quando scrisse La Malora, uscita nel 1954, quel problema di lingua comune adatta a un romanzo che volesse far parlare gente del popolo in italiano l’aveva ancora tutto intatto. La stragrande parte del Paese parlava nella quotidianità dialetti diversissimi, sono tuttora reciprocamente incomprensibili tra loro, anche a distanze relativamente brevi. Molto ha potuto la Tv di Stato di lì in poi per unire, come oggi unisce il mondo la possibilità di seguire in inglese le serie in streaming.

La lingua, con la sua ricchezza e complessità, riflette noi come e dove siamo: punta estrema dell’Europa protesa sul Nord Africa e sul Medioriente, un tempo sul confine tra l’impero romano d’occidente e d’oriente. Strati e mescolanze cui dobbiamo gran parte della nostra straordinariamente varia bellezza paesaggistica, architettonica, artistica. Nell’incontro e nel confronto sul territorio italiano sono maturati saperi che hanno fatto crescere il mondo. Roma con il suo impero immenso ha dato strutture di diritto civile tuttora valide nei Paesi avanzati e un concetto aperto di cittadinanza: san Paolo, per dirne uno, era un ebreo, cittadino romano di lingua greca, nato a Tarso in Cilicia (Turchia) e convertito al cristianesimo in Siria (a proposito di mescolanze). Federico II ha fatto della sua Corte tra Sicilia e Puglia un centro che univa le civiltà tra i più culturalmente avanzati del suo tempo, e intanto, poco dopo, dalle città mercantili italiane (Firenze, Genova, Venezia) punto d’incontro degli operatori di commercio di ogni provenienza s’è diffusa nel globo la partita doppia. E se l’innovazione artistica del Rinascimento fa tuttora di noi il centro del mondo in quel campo, il fermento dei Lumi lombardi in fitto interscambio con gli omologhi francesi e napoletani, ha insegnato al mondo con Cesare Beccaria a rendere giustizia nel rispetto della dignità dell’uomo. Mentre parla tuttora italiano la musica colta dal Venezuela alla Corea.

Niente di tutto questo, - che ci rende ciò che siamo culturalmente: un luogo rispettato e attraente per il mondo, - è stato frutto di una misura “protezionistica” semmai del suo contrario: di un’apertura storica e di un costante intercambio di culture, talora voluto, talaltra necessitato dalle condizioni storiche e geografiche.

Non per caso un recente studio dell’università di Bologna ha non solo confermato che quella italiana è la popolazione con la più grande varietà genetica d’Europa, figlia del nostro essere storicamente un costante crocevia migratorio, ma che questa varietà è iniziata molto prima di quanto pensassimo: secondo Marco Sazzini, professore associato del dipartimento di scienze biologiche, geologiche e ambientali all'università di Bologna, primo autore dello studio reso pubblico nel 2020: «l'arco temporale, in cui noi identifichiamo l'inizio di questa differenziazione, va tra i 19.000 e i 12.000 anni fa».

Chissà se mentre parlava di “un’etnia italiana” da proteggere il ministro Lollobrigida pensava a un’identità nata e fatta così.

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