Nella storia della Chiesa, il concilio
Vaticano II rappresenta
un evento del tutto singolare
sotto molti aspetti: nulla di paragonabile
rispetto ai concili del primo millennio
cristiano e a quelli successivi,
per due fondamentali ragioni, per così
dire, di “forma”: perché può essere
considerato il primo
consesso veramente
universale
dal punto di vista
della rappresentanza
geografica e per
l’altissimo numero
dei partecipanti.
vista, i grandi concili
dei primi secoli
facevano riferimento
a una Chiesa e a
un episcopato coincidenti
sostanzialmente
con l’area dell’impero romano
(d’Oriente e d’Occidente), così come
quelli successivi al Mille riguardavano
essenzialmente l’Occidente (essendo
intervenuta, nel 1054, la dolorosa lacerazione
fra Oriente e Occidente). Anche
l’ultimo Concilio celebrato prima
del Vaticano II, quello di Roma del
1869-1870 (il “Vaticano I”), del resto
prematuramente interrotto a causa
dell’ingresso delle truppe italiane a Roma,
registrava una limitatissima presenza
di vescovi non europei. Il Vaticano
II vide rappresentati tutti i continenti e
per la prima volta dette realmente voce
a quel mondo latino-americano nel
quale era andata confluendo una porzione
assai vasta del cattolicesimo.
In una seconda prospettiva, il Vaticano
II può essere considerato unico per
l’elevatissimo numero dei partecipanti.
Il Concilio di Trento si aprì alla presenza
di appena 25 vescovi (successivamente
aumentati, ma non di molto, essendo
state superate le difficoltà politiche
e logistiche che avevano impedito
una maggiore affluenza di padri conciliari);
ma anche il Vaticano I vide presenti
soltanto circa 700 vescovi. Al concilio
Vaticano II parteciparono, invece,
circa 2500 vescovi, dando luogo a
un’assise realmente
ecumenica, quale
mai era stata realizzata
nella storia della
Chiesa. Si trattò,
dunque, di un’assemblea
realmente
rappresentativa, la
cui “governabilità”,
tuttavia, suscitò non
pochi problemi, dalla
lungaggine di talune
discussioni
all’impossibilità pratica
di dare voce a
tutti coloro che avrebbero voluto fare
conoscere il loro pensiero sui punti di
volta in volta in discussione. Ma, nel
complesso, la discussione fu libera e
aperta, senza gli interventi censori, talora
pesanti, che si erano determinati
in alcuni dei precedenti concili.
Oltre che per la sua reale universalità,
tuttavia, il Vaticano II si caratterizzò
anche, e soprattutto, per la novità
dell’approccio. Non erano in discussione,
infatti, laceranti decisioni dottrinali
- come quelle che caratterizzarono
i primi concili o l’assise di Trento,
dominati i primi dalle questioni
cristologiche e il secondo dal dramma
della riforma protestante - ma un insieme
di problematiche legate al nuovo
rapporto fra Chiesa e modernità.
Anche per questo - a differenza di
quanto era avvenuto in precedenti occasioni
- non si dovettero emanare scomuniche
o interdetti, pur se su non
pochi punti il Vaticano II è giunto a
precise indicazioni dottrinali (segnando
così, in positivo, la via da seguire,
piuttosto che indicando, in negativo,
gli errori, o le eresie, da condannare).
Altra importante caratteristica del
Vaticano II fu quella della franca apertura
alle altre confessioni cristiane, da
quelle dell’Oriente ortodosso - con le
quali venne avviato un proficuo dialogo,
sancito dalla comune rinunzia alle
reciproche scomuniche - a quelle
della vasta area del protestantesimo,
grazie alla presenza di qualificati osservatori
con i quali venne avviato un
dialogo ecumenico destinato a dare
frutti, sia pure non con l’immediata
fecondità che da parte di molti era stata
auspicata, nei successivi decenni.
In prospettiva storica va anche sottolineata
la totale (e fino ad allora inedita)
libertà che caratterizzò i lavori del
Vaticano II e che non trova alcun precedente
nella lunga storia della Chiesa.
I primi concili vennero indetti, talora
presieduti, sempre seguiti e controllati,
dagli imperatori di Oriente; quelli
medievali vennero essi pure fortemente
condizionati dal potere politico, in
una linea che si ripeté in occasione del
Concilio di Trento; il Vaticano I, apertosi
nel dicembre del 1869 e prematuramente
interrotto pochi mesi più tardi,
registrò esso pure, anche se in forma
meno plateale, pesanti interferenze
dei vari governi, soprattutto dell’Occidente
europeo, in particolare a proposito
della questione dell’esercizio
dell’autorità del Pontefice e dell’infallibilità
delle decisioni da questi assunte
in materia di fede e di dottrina.
In occasione del Vaticano II non
mancò l’esplicito interesse dei vari governi
(attraverso i loro ambasciatori
presso la Santa Sede e altri canali) ai
dibattiti su alcune questioni dottrinali,
dalla liceità delle armi atomiche
(oggetto di netto ripudio da parte dei
padri conciliari) a quella del comunismo;
ma nulla di paragonabile alle antiche
interferenze, a dimostrazione di
una ritrovata libertà della Chiesa che
la pur inizialmente contrastata stagione
del liberalismo mostrava di assicurare
in maniera assai più reale rispetto
alla non disinteressata protezione
accordata alla Chiesa dai “re cristianissimi”
e dagli “Stati cattolici”.
È appena il caso di sottolineare
(ma il punto appare di importanza
tutt’altro che marginale) l’ampio rilievo
che il Vaticano II ebbe nell’opinione
pubblica mondiale, grazie ai mezzi
di comunicazione di massa che nelle
precedenti sessioni erano assenti e
che consentirono un’informazione rapida
ed essenziale, anche se non sempre
obiettiva, dei lavori conciliari, delle
sedute pubbliche, dei lavori delle
commissioni, degli incontri a latere.
Non è irrilevante, al riguardo, osservare
che ancora oggi alcune narrazioni
“giornalistiche” dell’evento conciliare
sono di grande importanza per la
ricostruzione della storia del Vaticano
II, delle sue dinamiche interne, talora
dei suoi retroscena (non senza,
in qualche caso, talune indulgenze alla
cronaca minuta, se non al pettegolezzo).
Si deve riconoscere, tuttavia
che - accanto, ovviamente, agli Atti
conciliari, ormai pressoché integralmente
pubblicati - quelle giornalistiche
rappresentano ancora oggi un tassello
importante al fine della lettura
della storia, esterna e interna, del concilio
Vaticano II.
Sotto questo insieme di punti di osservazione,
è possibile affermare con tranquilla sicurezza che il Vaticano II
ha rappresentato un unicum nella storia
della Chiesa, un avvenimento che
non ha alcun reale termine di confronto
con la lunga teoria dei concili
che lo hanno preceduto. Il continuo
susseguirsi di scritti - critici ma anche
memorialistici - sul Vaticano II non fa
che confermare l’importanza di quello
che può propriamente considerarsi
un evento epocale.
Nel corso di un lavoro protrattosi
per oltre tre anni (dall’11 ottobre
1962, all’8 dicembre 1965) ha prodotto
complessivamente sedici documenti,
di cui 4 Costituzioni, 9 Decreti, 3 Dichiarazioni5.
Si tratta di documenti di
varia mole e diversa importanza. Un
posto di assoluto rilievo, come emerge
dallo stesso “genere” dei documenti,
occupano le quattro grandi Costituzioni,
rispettivamente sulla liturgia (Sacrosanctum
Concilium, 4 dicembre 1963),
sulla Chiesa (Lumen Gentium, 21 novembre
1964), sulla Rivelazione (Dei
Verbum, 18 novembre 1965) e sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo
(Gaudium et Spes, 7 dicembre 1965).
Fra le Dichiarazioni, di particolare rilievo
- sia per le innovative aperture sulla
cultura dei diritti umani, sia per la
aperture in tema di libertà religiosa - la
Dignitatis Humanae (7 dicembre 1965),
mentre di notevole rilievo, in vista della
missione evangelizzatrice della Chiesa,
appare il Decreto sull’attività missionaria
(Ad Gentes, 7 dicembre 1965).
Come emerge dalla successione della
pubblicazione dei testi, è soprattutto
negli ultimi due anni di attività che
il concilio - superata la difficile fase di
avvio - ha prodotto la maggior mole di
documenti. Era comprensibile, del resto,
che all’inizio i padri conciliari venuti
in così gran numero da ogni parte
del mondo incontrassero difficoltà
a lavorare insieme. Il ricorso al latino
come lingua ufficiale (sia pure con
qualche eccezione, in particolare da
parte dei Padri dell’Oriente cristiano)
ha reso talvolta difficile il dialogo. Concorsero
tuttavia a superare tale ostacolo
l’uso delle lingue comuni nelle
Commissioni, nonché gli incontri di
gruppi di vescovi per aree linguistiche
(particolarmente importanti e influenti
furono gli incontri collegiali dei vescovi
e periti dell’area francofona). A
mano a mano che il Concilio proseguiva
nel suo corso, fu in queste sedi, più
che propriamente nelle aule conciliari,
che vennero formulate le più innovative
proposte di modifica dei testi
predisposti dalle diverse commissioni.
Se si considera l’elevato numero e
la forte disomogeneità culturale dei
partecipanti può apparire sorprendente
la mole di lavoro svolta in un arco
temporale relativamente breve; anche
se in qualche caso la ristrettezza
dei tempi non consentì un adeguato
approfondimento di alcuni temi. Alcune
questioni, d’altra parte, vennero
accantonate o formarono oggetto, a
latere del Concilio, di specifici interventi
del magistero pontificio (è il caso
dell’enciclica Pacem in Terris di Giovanni
XXIII, emanata l’11 aprile
1963, che rispondeva anche a diffuse
preoccupazioni dei padri conciliari in
ordine alla salvaguardia della pace).
Nella consapevolezza di non potere
affrontare tutti i complessi problemi
dottrinali che si ponevano allora alla
Chiesa, il Concilio ha optato per una
specifica intenzionalità pastorale, accogliendo
in tal modo l’indicazione che
proveniva dallo stesso Giovanni XXIII,
allorché, indicendo il Concilio, ne aveva
indicato il compito primario nel senso
di «dare maggiore efficienza» alla vitalità
della Chiesa e a «promuovere la
santificazione dei suoi membri, la diffusione
della verità rivelata, il consolidamento
delle sue strutture»6. Intenzionalità
ribadita dallo stesso pontefice
nel celebre discorso di apertura del
Concilio (11 ottobre 1962), allorché -
prendendo le distanze dai «profeti di
sventura che annunziano eventi sempre
più infausti, quasi che incombesse
la fine del mondo» - affermava la volontà
di consentire alla Chiesa, riunendosi
in Concilio, di fare «un balzo in avanti
verso una penetrazione dottrinale e
una formazione delle coscienze» che
rendessero possibile alla Chiesa un insegnamento
e una testimonianza conforme
«alle esigenze del nostro tempo
». «Altra cosa - aggiungeva Giovanni
XXIII - è infatti il deposito stesso della
fede... altra cosa è la forma» nella quale
le antiche verità avrebbero dovuto
essere di volta in volta annunziate.
Si delineava così quella formula
dell’aggiornamento che sarebbe divenuta
ben presto quasi lo slogan del Vaticano
II, con una sorprendente fortuna
di questo termine italiano presso i
padri conciliari di tutti i continenti.
Fu appunto in direzione di un “aggiornamento”
di un’antica e venerabile
dottrina che intesero operare i padri.
Né si trattò di un compito semplice
e facile: a pressoché tutti i pastori
mancava infatti l’esperienza del lavoro
conciliare (di cui, trascorso quasi
un secolo dal precedente concilio, si
era quasi smarrita la memoria); profonde
erano le differenze di mentalità
fra i Padri, anche perché sostanzialmente
per la prima volta partecipavano
a un’assise ecumenica anche i rappresentanti
dei “Paesi nuovi”; forte
era la divaricazione - che non tardò a
manifestarsi - fra “tradizionalisti” e
“progressisti”. Né mancarono i momenti
difficili, nei quali sembrò impossibile
riuscire a produrre documenti
conclusivi largamente condivisi
e non implicanti profonde lacerazioni
nel corpo ecclesiale.
Le ormai numerose “memorie” del
concilio - come quelle di Y. Congar e
H. Càmara - hanno messo in luce, anche
grazie a una vivace anedottica, limiti
e qualche volta debolezze e meschinità
di alcuni uomini di Chiesa e
posto in evidenza la fatica del percorso
intrapreso. Alla luce di queste difficoltà,
che il Vaticano II abbia potuto
concludersi con una serie di importanti
documenti sostanzialmente da
tutti condivisi non può che essere considerato
una sorta di “miracolo”, nel
quale il credente non può non scorgere
la presenza dello Spirito Santo. Posizioni
che all’inizio sembravano frontalmente
contrapposte si sono a poco
a poco avvicinate, talché alla fine si sono
su pressoché tutti i punti avvicinate.
Su pressoché tutte le questioni controverse
si è realizzato un incontro
che ha consentito a tutti i documenti,
anche a quello dal percorso più difficile
e tormentato (la Gaudium et Spes) di
essere approvati a larghissima maggioranza.
I non placet (e cioè i voti contrari)
furono, alla fine, assai pochi e tutti
i documenti passarono a larghissima
maggioranza. Né si trattò di imposizioni
dall’alto ma, quasi sempre, di progressivo
e convinto allineamento su
posizioni dapprima guardate con diffidenza
e progressivamente accolte,
grazie a franchi e schietti dibattiti.
La stessa dolorosa dissidenza non
portò ad alcuno scisma, se si eccettua
quello, limitatissimo, del vescovo francese
Marcel Lefebvre: nulla di paragonabile
alle vere e proprie fratture che si determinarono nei primi concili
della Chiesa e ancora, nel 1870, con
lo scisma dei “vecchi cattolici” di J.I.
Döllinger. La Chiesa cattolica - nonostante
le vivaci discussioni conciliari -
uscì sostanzialmente unita (e più unita
di prima) dal Vaticano II.
Il concilio Vaticano II appare particolarmente
innovativo in ordine alle
tematiche del matrimonio e della famiglia.
Esso non ha prodotto al riguardo
uno specifico documento (nonostante
venissero avanzate da numerosi
padri conciliari richieste in tal senso)
ma ha preferito caratterizzare in
senso familiare i suoi pronunziamenti
sulle varie questioni di volta in volta affrontate.
Così, nella sua riflessione sulla
Chiesa, ha ripreso la visione patristica
della “Chiesa domestica” sottolineando
il ruolo dei genitori come
“primi annunciatori della fede” (LG,
n. 11); eppure affrontando il problema
dell’educazione (Gravissimum Educationis)
ha sottolineato la funzione
educativa della famiglia e le sue responsabilità
in ordine alla formazione
tanto del senso della Chiesa quanto
dell’apertura alla società (n. 3).
Non meno significative le indicazioni della Sacrosanctum Concilium in ordine
alla riforma del rito del matrimonio,
così da renderlo sempre più autenticamente
evangelizzante (n. 77).
Minore attenzione è stata invece dedicata
alle “liturgie domestiche”, nonostante
che, a partire dal secondo dopoguerra,
fossero state fatte in Europa
significative esperienze di preghiera
familiare, anche se non è mancata
la sottolineatura dell’importanza della
preghiera familiare (GS, n. 48). Il
fondamentale luogo di riflessione sulla
famiglia del Vaticano II è stato il
denso (e travagliato) capitolo a essa
dedicato dalla Gaudium et Spes (n.
47-52): una sorta di preziosa piccola
summa che in una brevissima trattazione
riprende e sintetizza un’antica tradizione
e insieme la riformula e la ripropone
nei nuovi scenari della modernità,
alla luce delle acquisizioni
dell’antropologia e della stessa più
matura teologia. Pochi documenti
conciliari come la Gaudium et Spes hanno
formato oggetto di intensi e vivaci
dibattiti e, all’interno di questa Costituzione,
la sezione su “Dignità del matrimonio
e della famiglia e sua valorizzazione”,
ha dato luogo a un franco
confronto fra le diverse posizioni.
Due punti, in particolare, sono stati
vivacemente dibattuti, sino a trovare
alla fine una sostanziale convergenza.
1 - Il primo punto riguardava la centralità
dell’amore coniugale (categoria
sino ad allora sottovalutata, in considerazione
di una visione prevalentemente
giuridica del matrimonio) e
dunque il passaggio da una considerazione
prevalente dei “fini” del matrimonio
a una visione più aperta a coglierne
il “senso”, alla luce delle acquisizioni
dell’antropologia personalista
(in questa luce il matrimonio veniva
riconosciuto come “dotato di molteplici
valori e fini”: GS, n. 48).
2 -
Il secondo punto riguardava il riconoscimento
della doverosità di una
procreazione responsabile, a partire
dalla ritrovata centralità della coscienza
dei coniugi, pur nella consapevolezza
che «i coniugi cristiani... non
possono procedere a loro arbitrio ma
devono essere sempre retti da una coscienza
che si deve conformare alla
legge divina e permanere attenta al
magistero della Chiesa» (GS, n. 50).
Ne emergeva una visione in gran
parte nuova del matrimonio e della famiglia,
con l’accoglimento delle più
valide istanze della cultura personalista
del Novecento; visione che la successiva
ricerca teologica avrebbe progressivamente
sviluppato, in dialogo
con il magistero ma talora in dialettica
con esso, soprattutto dopo l’emanazione,
da parte di Paolo VI, di quella enciclica
Humanae Vitae (25 luglio 1968)
con la quale la tradizionale dottrina
della Chiesa sulla procreazione veniva
ripresa e aggiornata, con il riconoscimento,
nella prospettiva conciliare,
della legittimità di una responsabile
regolazione delle nascite, seppure indicando
come via maestra da percorrere
quella della “continenza periodica”:
posizione, questa, che determinò,
in quegli anni, profonde lacerazioni,
che per taluni aspetti persistono, senza
tuttavia che questa pluralità di posizioni
mettesse in discussione la nuova
visione del matrimonio e della famiglia
proposta dalla Gaudium et Spes.
Osservano gli storici che la “recezione”
piena del Concilio di Trento ha richiesto
circa tre secoli, sia per una serie
di ritardi frapposti da chiese locali
restie a radicali riforme, sia per gli interventi
con i quali i poteri civili - in
quel tempo assai influenti, nei Paesi
cattolici, sulla stessa vita della Chiesa -
hanno ostacolato l’attuazione delle indicazioni
conciliari.
Benché i tempi siano radicalmente
mutati negli oltre 450 anni che ci separano
da quell’evento, tuttavia è necessario
prendere atto del fatto che è
ancora in corso il lungo cammino di
attuazione delle indicazioni conciliari:
passi più spediti sono stati realizzati
in alcune direzioni, lentezze e ritardi
si sono invece registrati in altri ambiti,
né sono mancati - come in campo
liturgico - quelli che da molte parti sono
stati considerati veri e propri arretramenti.
Non è dunque ancora giunto
il tempo per un vero e proprio “bilancio”;
anche se è possibile - a distanza
di mezzo secolo - dare una prima valutazione
intorno a quanto del concilio
Vaticano II è transitato nella vita
della Chiesa e quanto ha invece faticato
a circolare o si è addirittura arenato
nelle secche di un corpo ecclesiale
talora restio ad accettare le novità (e
di novità il Vaticano II ne ha recate
non poche, sino a far gridare, da qualche
parte, a uno “stravolgimento” della
tradizione ecclesiastica).
Affrontando il tema nello specifico
contesto della Chiesa italiana10, un primo
tentativo di bilancio non può che
prendere le mosse da una constatazione:
e cioè che, un poco paradossalmente,
una Chiesa che più di altre è
stata colta, per così dire, di sorpresa
dal Concilio, e che tale evento aveva
concorso solo in limitata misura a preparare
- al di là della grande intuizione
di un outsider dell’apparato ecclesiastico,
Giovanni XXIII -, è stata tuttavia,
nei successivi decenni, fra quelle
che le indicazioni conciliari hanno recepito
con maggiore entusiasmo e anche,
nel complesso, con maggiore
equilibrio, riuscendo sostanzialmente
a contemperare, e a superare, le resistenze
dei conservatori e talune intemperanze
di generosi, ma non sempre
lungimiranti, innovatori.
All’indomani del Concilio mancava
in Italia una vera collegialità episcopale
(solo sulla spinta del Vaticano II si
è formata e progressivamente affermata
la Conferenza episcopale italiana);
si registravano forti ritardi nella
ricerca teologica, ancora monopolizzata da una “scuola romana” in genere
fortemente conservatrice; era ancora
agli albori la riscoperta della centralità
della Parola di Dio; prevaleva, in
generale - salvo che in aree, soprattutto
nell’Italia settentrionale, più aperte
all’“aria nuova” che proveniva da
Oltralpe -, un cristianesimo sacrale e
devozionale, caratterizzato da una religiosità
popolare ancora ricca di valori
ma culturalmente povera e spesso
spiritualmente asfittica.
Nell’arco di questi anni, molti di
questi limiti sono stati superati e significativi
passi avanti sono stati compiuti:
nel rinnovamento della liturgia,
nel ritrovato amore per la Bibbia, nel
nuovo impulso dato alla teologia e alla
cultura cattolica in generale, nella
valorizzazione del nuovo protagonismo
laicale. In complesso, il bilancio
della recezione del Vaticano II in Italia
può essere considerato positivo.
Rimangono, tuttavia alcune zone
d’ombra, che attendono di essere illuminate
nella nuova stagione che si
apre al termine di questo primo cinquantennio.
Si tratta, più che di fare
una sorta di lunga elencazione di incertezze
e di ritardi, di individuare alcuni
punti nodali di questa augurabile
“seconda fase” del cammino postconciliare
della Chiesa italiana. Assai
ampio dovrebbe essere il panorama
da tracciare, ma è giocoforza limitarsi,
in questa sede, a segnalare alcuni
“nodi” particolarmente problematici.
1 - Il primo e fondamentale “nodo”
da sciogliere è quello che riguarda la
presenza e il ruolo della Chiesa nella
società italiana: di dominio o di autentico
servizio? La posizione conciliare
era su questo punto assai netta, a tutto
favore dell’umile servizio al mondo;
ma persistono nostalgie trionfalistiche
e, mentre si riconosce pressoché
da tutti che il tempo della cristianità
è finito, si fatica a trarne le conseguenze.
Un esempio classico è rappresentato
dall’attuale prassi battesimale,
ancora quasi generalizzata ma molto
spesso quasi soltanto “per tradizione”.
Fino a che punto questa “tradizione”
potrà continuare (e sarà degna di
essere conservata?). Prendere sul serio
la constatazione della fine della
cristianità presupporrebbe inoltre
una radicale riorganizzazione delle,
spesso pesanti, strutture ecclesiali e
passare da un “cristianesimo stanziale”
(che attende nelle parrocchie i fedeli)
a un “cristianesimo itinerante”,
che cerca gli uomini là dove essi sono;
ma questa presa di coscienza è, tanto
nell’apparato ecclesiastico quanto in
molti credenti, ancora embrionale.
2 - Un secondo “nodo” che - nonostante
le solenni enunciazioni conciliari
e le successive indicazioni provenute
dal Sinodo mondiale dei vescovi
hanno portato alla pubblicazione della
Christifideles Laici di Giovanni Paolo
II (1989), deve essere ancora sciolto -
è quello dell’attiva e convinta partecipazione
dei fedeli laici, e non solo di
piccole élite, alla missione evangelizzatrice
della Chiesa attraverso una forte
e incisiva presenza nel mondo. Si
ha spesso l’impressione che il “popolo
di Dio” - dalla Lumen Gentium riconosciuto
come categoria centrale nella
Chiesa - sia ancora, nella realtà delle
cose, un corpo ancora amorfo; né
sembrano godere di buona salute -
per riconoscimento degli stessi vescovi,
come è avvenuto in occasione del
convegno ecclesiale di Verona del
2006 - quegli organismi di partecipazione
che il Concilio ha suggerito e
che o non sono stati attuati (come un
“Consiglio dei laici” italiano) o vivono
spesso di vita grama (come i Consigli
pastorali diocesani e parrocchiali).
Nessuna reale nuova evangelizzazione
dell’Italia potrà avvenire senza l’attivo
coinvolgimento di quel “popolo
di Dio” che è in grandissima maggioranza
composto di laici. La stessa crisi
delle vocazioni presbiterali e religiose
potrebbe essere letta - ma quasi mai è
interpretata in questo senso - come
un forte appello alla riscoperta dei carismi
laicali.
3 - Un terzo problema aperto è quello
della posizione della donna nella
Chiesa. Nonostante le indicazioni del
Concilio e del successivo magistero
(in particolare di quello di Giovanni
Paolo II), la Chiesa italiana continua
ad avere una caratterizzazione fortemente
unipolare, in senso maschile,
anche negli ambiti e negli spazi che di
per sé non sono esclusivi dei ministri
ordinati. Non è in questione quello
che potrebbe apparire un falso problema
- e cioè l’ordinazione delle donne
- ma il riconoscimento di un’effettiva
presenza della donna in numerosissimi
ambiti (dalla predicazione all’insegnamento
della teologia, dall’animazione
di comunità al coordinamento
di specifiche aree pastorali) per i quali
non è richiesta l’ordinazione. Del resto,
molte norme che riguardano la
donna nella Chiesa (per esempio,
nell’ambito del diritto canonico) non
hanno alcun fondamento dogmatico
o scritturistico e vanno ricondotte a
una lunga tradizione meritevole di essere
ripresa e riconsiderata alla luce
della nuova attenzione posta dal Concilio
all’area della femminilità.
Numerosi sarebbero i “luoghi” di
un insegnamento, quello conciliare,
da riprendere e da rivisitare. È augurabile
che, eventualmente in un’assise
straordinaria del “popolo di Dio” che
è in Italia, si abbia il coraggio di fare
uno schietto e disinibito bilancio di
ciò che del Concilio è passato e di ciò
che è invece rimasto imprigionato nelle
secche di un corpo ecclesiale non
sempre disponibile al rinnovamento.
Il 50° del Vaticano II è per la comunità
cristiana una grande occasione di
verifica - e se necessario di “revisione
di vita” - che non dovrebbe assolutamente
passare sotto silenzio.
In estrema sintesi, il Vaticano II potrebbe
essere considerato un “cantiere”
ancora aperto, in una Chiesa sulla
quale dovrebbe essere idealmente
piantato il classico cartello “lavori in
corso”. Il Vaticano II è un work in progress,
la cui graduale attuazione può
essere considerata ancora agli inizi: in
questo senso il Concilio è assai più
avanti a noi che dietro di noi, e dunque
la sua è una sorta di paradossale
“storia” che non può limitarsi alla
semplice ricostruzione di ciò che è avvenuto
ma deve fare i conti - prima
che si possa tracciare un definitivo bilancio
- con ciò che deve ancora accadere,
sia sotto il profilo delle indicazioni
operative ancora da tradurre in
pratica (e non sono poche), sia dal
punto di vista dello spirito con il quale
alcune indicazioni sono state offerte
alla Chiesa post-conciliare.
Le linee ideali di questo percorso
sono state tracciate dalle quattro grandi
costituzioni: punto di partenza è il
rinnovamento della liturgia (Sacrosanctum
Concilium), quale fondamento
dell’intera vita del cristiano, come momento
fondamentale di adorazione e
insieme di operoso impegno nel mondo; la riscoperta della Parola di Dio
(Dei Verbum) è la condizione necessaria
per instaurare un nuovo e più vitale
rapporto sia con le dinamiche interne
alla Chiesa sia in ordine al fondamento
ultimo della sua missione; nasce
da qui una nuova autocoscienza
della Chiesa (Lumen Gentium) come
condizione necessaria per il suo rapporto
di umile e operoso servizio al
mondo e alla storia (Gaudium et Spes).
Né è un caso che proprio quest’ultima
costituzione conciliare - quale conclusivo
servizio che la Chiesa ha inteso
a rendere al mondo, prima ancora che
a sé stessa - recuperi pienamente quella
sorta di “estroversione” di cui già la costituzione
sulla liturgia aveva posto le
fondamenta allorché aveva ricordato -
prendendo definitivamente le distanze
da una visione chiusa e intimistica del
culto e a partire dalla consapevolezza
che esso era a un tempo la “fonte” e il
“culmine” della vita della Chiesa (n.
10) - che l’autentico culto a Dio avrebbe
potuto essere soltanto il punto di arrivo
di un lungo cammino incentrato
sulla conversione e sulla riscoperta della
fede (n. 9). Una sorta di filo rosso collega
dunque fra loro il punto iniziale e
il punto terminale del concilio. Sacrosanctum
Concilium e Gaudium et Spes,
in una sorta di inter-relazione alla luce
della quale il “prima” e il “dopo”
erano strettamente connessi fra loro:
né l’adorazione a Dio poteva essere
autentica e pura senza l’impegno nel
mondo, né l’immersione della storia
poteva avere senso se essa non avesse
portato gli uomini e le donne di ogni
tempo alla preghiera, all’adorazione
e al continuo rendimento di grazie.
Perché questo ideale si realizzasse era
necessario - alla luce, soprattutto, della
Lumen Gentium - che la Chiesa assumesse
piena consapevolezza di sé e recuperasse
la ricchezza e la varietà dei
compiti, delle responsabilità, dei carismi
dell’intero popolo di Dio, con il
passaggio da una comunità tentata di
identificarsi (e di essere identificata)
nella sua sola dimensione gerarchica
a una Chiesa “popolo di Dio”, e per
questo varia, articolata, complessa e
qualche volta complicata perché arricchita
da una pluralità di voci che,
per confluire nell’unico coro, avrebbero
dovuto essere, una per una, riconosciute
e valorizzate.
È forse proprio questo - il sogno di
una Chiesa unita e insieme plurale, e
per questo capace di superare antiche
e nuove divisioni - il messaggio
più significativo che il Vaticano II ha
affidato alle successive generazioni
cristiane: essere Chiesa in un modo
nuovo, articolato e pluralistico, capace
di conciliare unità e diversità, senza
sopprimere alcuna voce, così da offrire
agli uomini del nostro tempo
l’immagine di una comunità libera e
aperta, nella quale è bello riconoscersi
e per la quale è gioioso offrire la
propria vita, come hanno testimoniato
i martiri di ogni tempo.