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venerdì 18 aprile 2025
 
 

Concilio: novità su matrimonio e famiglia

23/09/2012  Il concilio Vaticano II rappresenta un evento del tutto singolare sotto molti aspetti: nulla di paragonabile rispetto ai concili del primo millennio e a quelli successivi. Ecco perché.

Nella storia della Chiesa, il concilio Vaticano II rappresenta un evento del tutto singolare sotto molti aspetti: nulla di paragonabile rispetto ai concili del primo millennio cristiano e a quelli successivi, per due fondamentali ragioni, per così dire, di “forma”: perché può essere considerato il primo consesso veramente universale dal punto di vista della rappresentanza geografica e per l’altissimo numero dei partecipanti.

vista, i grandi concili dei primi secoli facevano riferimento a una Chiesa e a un episcopato coincidenti sostanzialmente con l’area dell’impero romano (d’Oriente e d’Occidente), così come quelli successivi al Mille riguardavano essenzialmente l’Occidente (essendo intervenuta, nel 1054, la dolorosa lacerazione fra Oriente e Occidente). Anche l’ultimo Concilio celebrato prima del Vaticano II, quello di Roma del 1869-1870 (il “Vaticano I”), del resto prematuramente interrotto a causa dell’ingresso delle truppe italiane a Roma, registrava una limitatissima presenza di vescovi non europei. Il Vaticano II vide rappresentati tutti i continenti e per la prima volta dette realmente voce a quel mondo latino-americano nel quale era andata confluendo una porzione assai vasta del cattolicesimo.

In una seconda prospettiva, il Vaticano II può essere considerato unico per l’elevatissimo numero dei partecipanti. Il Concilio di Trento si aprì alla presenza di appena 25 vescovi (successivamente aumentati, ma non di molto, essendo state superate le difficoltà politiche e logistiche che avevano impedito una maggiore affluenza di padri conciliari); ma anche il Vaticano I vide presenti soltanto circa 700 vescovi. Al concilio Vaticano II parteciparono, invece, circa 2500 vescovi, dando luogo a un’assise realmente ecumenica, quale mai era stata realizzata nella storia della Chiesa. Si trattò, dunque, di un’assemblea realmente rappresentativa, la cui “governabilità”, tuttavia, suscitò non pochi problemi, dalla lungaggine di talune discussioni all’impossibilità pratica di dare voce a tutti coloro che avrebbero voluto fare conoscere il loro pensiero sui punti di volta in volta in discussione. Ma, nel complesso, la discussione fu libera e aperta, senza gli interventi censori, talora pesanti, che si erano determinati in alcuni dei precedenti concili.

Oltre che per la sua reale universalità, tuttavia, il Vaticano II si caratterizzò anche, e soprattutto, per la novità dell’approccio. Non erano in discussione, infatti, laceranti decisioni dottrinali - come quelle che caratterizzarono i primi concili o l’assise di Trento, dominati i primi dalle questioni cristologiche e il secondo dal dramma della riforma protestante - ma un insieme di problematiche legate al nuovo rapporto fra Chiesa e modernità. Anche per questo - a differenza di quanto era avvenuto in precedenti occasioni - non si dovettero emanare scomuniche o interdetti, pur se su non pochi punti il Vaticano II è giunto a precise indicazioni dottrinali (segnando così, in positivo, la via da seguire, piuttosto che indicando, in negativo, gli errori, o le eresie, da condannare).

Altra importante caratteristica del Vaticano II fu quella della franca apertura alle altre confessioni cristiane, da quelle dell’Oriente ortodosso - con le quali venne avviato un proficuo dialogo, sancito dalla comune rinunzia alle reciproche scomuniche - a quelle della vasta area del protestantesimo, grazie alla presenza di qualificati osservatori con i quali venne avviato un dialogo ecumenico destinato a dare frutti, sia pure non con l’immediata fecondità che da parte di molti era stata auspicata, nei successivi decenni.

In prospettiva storica va anche sottolineata la totale (e fino ad allora inedita) libertà che caratterizzò i lavori del Vaticano II e che non trova alcun precedente nella lunga storia della Chiesa. I primi concili vennero indetti, talora presieduti, sempre seguiti e controllati, dagli imperatori di Oriente; quelli medievali vennero essi pure fortemente condizionati dal potere politico, in una linea che si ripeté in occasione del Concilio di Trento; il Vaticano I, apertosi nel dicembre del 1869 e prematuramente interrotto pochi mesi più tardi, registrò esso pure, anche se in forma meno plateale, pesanti interferenze dei vari governi, soprattutto dell’Occidente europeo, in particolare a proposito della questione dell’esercizio dell’autorità del Pontefice e dell’infallibilità delle decisioni da questi assunte in materia di fede e di dottrina.

In occasione del Vaticano II non mancò l’esplicito interesse dei vari governi (attraverso i loro ambasciatori presso la Santa Sede e altri canali) ai dibattiti su alcune questioni dottrinali, dalla liceità delle armi atomiche (oggetto di netto ripudio da parte dei padri conciliari) a quella del comunismo; ma nulla di paragonabile alle antiche interferenze, a dimostrazione di una ritrovata libertà della Chiesa che la pur inizialmente contrastata stagione del liberalismo mostrava di assicurare in maniera assai più reale rispetto alla non disinteressata protezione accordata alla Chiesa dai “re cristianissimi” e dagli “Stati cattolici”.

È appena il caso di sottolineare (ma il punto appare di importanza tutt’altro che marginale) l’ampio rilievo che il Vaticano II ebbe nell’opinione pubblica mondiale, grazie ai mezzi di comunicazione di massa che nelle precedenti sessioni erano assenti e che consentirono un’informazione rapida ed essenziale, anche se non sempre obiettiva, dei lavori conciliari, delle sedute pubbliche, dei lavori delle commissioni, degli incontri a latere. Non è irrilevante, al riguardo, osservare che ancora oggi alcune narrazioni “giornalistiche” dell’evento conciliare sono di grande importanza per la ricostruzione della storia del Vaticano II, delle sue dinamiche interne, talora dei suoi retroscena (non senza, in qualche caso, talune indulgenze alla cronaca minuta, se non al pettegolezzo). Si deve riconoscere, tuttavia che - accanto, ovviamente, agli Atti conciliari, ormai pressoché integralmente pubblicati - quelle giornalistiche rappresentano ancora oggi un tassello importante al fine della lettura della storia, esterna e interna, del concilio Vaticano II.

Sotto questo insieme di punti di osservazione, è possibile affermare con tranquilla sicurezza che il Vaticano II ha rappresentato un unicum nella storia della Chiesa, un avvenimento che non ha alcun reale termine di confronto con la lunga teoria dei concili che lo hanno preceduto. Il continuo susseguirsi di scritti - critici ma anche memorialistici - sul Vaticano II non fa che confermare l’importanza di quello che può propriamente considerarsi un evento epocale.

Nel corso di un lavoro protrattosi per oltre tre anni (dall’11 ottobre 1962, all’8 dicembre 1965) ha prodotto complessivamente sedici documenti, di cui 4 Costituzioni, 9 Decreti, 3 Dichiarazioni5. Si tratta di documenti di varia mole e diversa importanza. Un posto di assoluto rilievo, come emerge dallo stesso “genere” dei documenti, occupano le quattro grandi Costituzioni, rispettivamente sulla liturgia (Sacrosanctum Concilium, 4 dicembre 1963), sulla Chiesa (Lumen Gentium, 21 novembre 1964), sulla Rivelazione (Dei Verbum, 18 novembre 1965) e sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et Spes, 7 dicembre 1965). Fra le Dichiarazioni, di particolare rilievo - sia per le innovative aperture sulla cultura dei diritti umani, sia per la aperture in tema di libertà religiosa - la Dignitatis Humanae (7 dicembre 1965), mentre di notevole rilievo, in vista della missione evangelizzatrice della Chiesa, appare il Decreto sull’attività missionaria (Ad Gentes, 7 dicembre 1965).

Come emerge dalla successione della pubblicazione dei testi, è soprattutto negli ultimi due anni di attività che il concilio - superata la difficile fase di avvio - ha prodotto la maggior mole di documenti. Era comprensibile, del resto, che all’inizio i padri conciliari venuti in così gran numero da ogni parte del mondo incontrassero difficoltà a lavorare insieme. Il ricorso al latino come lingua ufficiale (sia pure con qualche eccezione, in particolare da parte dei Padri dell’Oriente cristiano) ha reso talvolta difficile il dialogo. Concorsero tuttavia a superare tale ostacolo l’uso delle lingue comuni nelle Commissioni, nonché gli incontri di gruppi di vescovi per aree linguistiche (particolarmente importanti e influenti furono gli incontri collegiali dei vescovi e periti dell’area francofona). A mano a mano che il Concilio proseguiva nel suo corso, fu in queste sedi, più che propriamente nelle aule conciliari, che vennero formulate le più innovative proposte di modifica dei testi predisposti dalle diverse commissioni.

Se si considera l’elevato numero e la forte disomogeneità culturale dei partecipanti può apparire sorprendente la mole di lavoro svolta in un arco temporale relativamente breve; anche se in qualche caso la ristrettezza dei tempi non consentì un adeguato approfondimento di alcuni temi. Alcune questioni, d’altra parte, vennero accantonate o formarono oggetto, a latere del Concilio, di specifici interventi del magistero pontificio (è il caso dell’enciclica Pacem in Terris di Giovanni XXIII, emanata l’11 aprile 1963, che rispondeva anche a diffuse preoccupazioni dei padri conciliari in ordine alla salvaguardia della pace).

Nella consapevolezza di non potere affrontare tutti i complessi problemi dottrinali che si ponevano allora alla Chiesa, il Concilio ha optato per una specifica intenzionalità pastorale, accogliendo in tal modo l’indicazione che proveniva dallo stesso Giovanni XXIII, allorché, indicendo il Concilio, ne aveva indicato il compito primario nel senso di «dare maggiore efficienza» alla vitalità della Chiesa e a «promuovere la santificazione dei suoi membri, la diffusione della verità rivelata, il consolidamento delle sue strutture»6. Intenzionalità ribadita dallo stesso pontefice nel celebre discorso di apertura del Concilio (11 ottobre 1962), allorché - prendendo le distanze dai «profeti di sventura che annunziano eventi sempre più infausti, quasi che incombesse la fine del mondo» - affermava la volontà di consentire alla Chiesa, riunendosi in Concilio, di fare «un balzo in avanti verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze» che rendessero possibile alla Chiesa un insegnamento e una testimonianza conforme «alle esigenze del nostro tempo ». «Altra cosa - aggiungeva Giovanni XXIII - è infatti il deposito stesso della fede... altra cosa è la forma» nella quale le antiche verità avrebbero dovuto essere di volta in volta annunziate.

Si delineava così quella formula dell’aggiornamento che sarebbe divenuta ben presto quasi lo slogan del Vaticano II, con una sorprendente fortuna di questo termine italiano presso i padri conciliari di tutti i continenti. Fu appunto in direzione di un “aggiornamento” di un’antica e venerabile dottrina che intesero operare i padri. Né si trattò di un compito semplice e facile: a pressoché tutti i pastori mancava infatti l’esperienza del lavoro conciliare (di cui, trascorso quasi un secolo dal precedente concilio, si era quasi smarrita la memoria); profonde erano le differenze di mentalità fra i Padri, anche perché sostanzialmente per la prima volta partecipavano a un’assise ecumenica anche i rappresentanti dei “Paesi nuovi”; forte era la divaricazione - che non tardò a manifestarsi - fra “tradizionalisti” e “progressisti”. Né mancarono i momenti difficili, nei quali sembrò impossibile riuscire a produrre documenti conclusivi largamente condivisi e non implicanti profonde lacerazioni nel corpo ecclesiale.

Le ormai numerose “memorie” del concilio - come quelle di Y. Congar e H. Càmara - hanno messo in luce, anche grazie a una vivace anedottica, limiti e qualche volta debolezze e meschinità di alcuni uomini di Chiesa e posto in evidenza la fatica del percorso intrapreso. Alla luce di queste difficoltà, che il Vaticano II abbia potuto concludersi con una serie di importanti documenti sostanzialmente da tutti condivisi non può che essere considerato una sorta di “miracolo”, nel quale il credente non può non scorgere la presenza dello Spirito Santo. Posizioni che all’inizio sembravano frontalmente contrapposte si sono a poco a poco avvicinate, talché alla fine si sono su pressoché tutti i punti avvicinate. Su pressoché tutte le questioni controverse si è realizzato un incontro che ha consentito a tutti i documenti, anche a quello dal percorso più difficile e tormentato (la Gaudium et Spes) di essere approvati a larghissima maggioranza. I non placet (e cioè i voti contrari) furono, alla fine, assai pochi e tutti i documenti passarono a larghissima maggioranza. Né si trattò di imposizioni dall’alto ma, quasi sempre, di progressivo e convinto allineamento su posizioni dapprima guardate con diffidenza e progressivamente accolte, grazie a franchi e schietti dibattiti.

La stessa dolorosa dissidenza non portò ad alcuno scisma, se si eccettua quello, limitatissimo, del vescovo francese Marcel Lefebvre: nulla di paragonabile alle vere e proprie fratture che si determinarono nei primi concili della Chiesa e ancora, nel 1870, con lo scisma dei “vecchi cattolici” di J.I. Döllinger. La Chiesa cattolica - nonostante le vivaci discussioni conciliari - uscì sostanzialmente unita (e più unita di prima) dal Vaticano II.

Il concilio Vaticano II appare particolarmente innovativo in ordine alle tematiche del matrimonio e della famiglia. Esso non ha prodotto al riguardo uno specifico documento (nonostante venissero avanzate da numerosi padri conciliari richieste in tal senso) ma ha preferito caratterizzare in senso familiare i suoi pronunziamenti sulle varie questioni di volta in volta affrontate. Così, nella sua riflessione sulla Chiesa, ha ripreso la visione patristica della “Chiesa domestica” sottolineando il ruolo dei genitori come “primi annunciatori della fede” (LG, n. 11); eppure affrontando il problema dell’educazione (Gravissimum Educationis) ha sottolineato la funzione educativa della famiglia e le sue responsabilità in ordine alla formazione tanto del senso della Chiesa quanto dell’apertura alla società (n. 3).

Non meno significative le indicazioni della Sacrosanctum Concilium in ordine alla riforma del rito del matrimonio, così da renderlo sempre più autenticamente evangelizzante (n. 77). Minore attenzione è stata invece dedicata alle “liturgie domestiche”, nonostante che, a partire dal secondo dopoguerra, fossero state fatte in Europa significative esperienze di preghiera familiare, anche se non è mancata la sottolineatura dell’importanza della preghiera familiare (GS, n. 48). Il fondamentale luogo di riflessione sulla famiglia del Vaticano II è stato il denso (e travagliato) capitolo a essa dedicato dalla Gaudium et Spes (n. 47-52): una sorta di preziosa piccola summa che in una brevissima trattazione riprende e sintetizza un’antica tradizione e insieme la riformula e la ripropone nei nuovi scenari della modernità, alla luce delle acquisizioni dell’antropologia e della stessa più matura teologia. Pochi documenti conciliari come la Gaudium et Spes hanno formato oggetto di intensi e vivaci dibattiti e, all’interno di questa Costituzione, la sezione su “Dignità del matrimonio e della famiglia e sua valorizzazione”, ha dato luogo a un franco confronto fra le diverse posizioni.

Due punti, in particolare, sono stati vivacemente dibattuti, sino a trovare alla fine una sostanziale convergenza.

1 - Il primo punto riguardava la centralità dell’amore coniugale (categoria sino ad allora sottovalutata, in considerazione di una visione prevalentemente giuridica del matrimonio) e dunque il passaggio da una considerazione prevalente dei “fini” del matrimonio a una visione più aperta a coglierne il “senso”, alla luce delle acquisizioni dell’antropologia personalista (in questa luce il matrimonio veniva riconosciuto come “dotato di molteplici valori e fini”: GS, n. 48).

2 -
Il secondo punto riguardava il riconoscimento della doverosità di una procreazione responsabile, a partire dalla ritrovata centralità della coscienza dei coniugi, pur nella consapevolezza che «i coniugi cristiani... non possono procedere a loro arbitrio ma devono essere sempre retti da una coscienza che si deve conformare alla legge divina e permanere attenta al magistero della Chiesa» (GS, n. 50).

Ne emergeva una visione in gran parte nuova del matrimonio e della famiglia, con l’accoglimento delle più valide istanze della cultura personalista del Novecento; visione che la successiva ricerca teologica avrebbe progressivamente sviluppato, in dialogo con il magistero ma talora in dialettica con esso, soprattutto dopo l’emanazione, da parte di Paolo VI, di quella enciclica Humanae Vitae (25 luglio 1968) con la quale la tradizionale dottrina della Chiesa sulla procreazione veniva ripresa e aggiornata, con il riconoscimento, nella prospettiva conciliare, della legittimità di una responsabile regolazione delle nascite, seppure indicando come via maestra da percorrere quella della “continenza periodica”: posizione, questa, che determinò, in quegli anni, profonde lacerazioni, che per taluni aspetti persistono, senza tuttavia che questa pluralità di posizioni mettesse in discussione la nuova visione del matrimonio e della famiglia proposta dalla Gaudium et Spes.

Osservano gli storici che la “recezione” piena del Concilio di Trento ha richiesto circa tre secoli, sia per una serie di ritardi frapposti da chiese locali restie a radicali riforme, sia per gli interventi con i quali i poteri civili - in quel tempo assai influenti, nei Paesi cattolici, sulla stessa vita della Chiesa - hanno ostacolato l’attuazione delle indicazioni conciliari.

Benché i tempi siano radicalmente mutati negli oltre 450 anni che ci separano da quell’evento, tuttavia è necessario prendere atto del fatto che è ancora in corso il lungo cammino di attuazione delle indicazioni conciliari: passi più spediti sono stati realizzati in alcune direzioni, lentezze e ritardi si sono invece registrati in altri ambiti, né sono mancati - come in campo liturgico - quelli che da molte parti sono stati considerati veri e propri arretramenti. Non è dunque ancora giunto il tempo per un vero e proprio “bilancio”; anche se è possibile - a distanza di mezzo secolo - dare una prima valutazione intorno a quanto del concilio Vaticano II è transitato nella vita della Chiesa e quanto ha invece faticato a circolare o si è addirittura arenato nelle secche di un corpo ecclesiale talora restio ad accettare le novità (e di novità il Vaticano II ne ha recate non poche, sino a far gridare, da qualche parte, a uno “stravolgimento” della tradizione ecclesiastica).

Affrontando il tema nello specifico contesto della Chiesa italiana10, un primo tentativo di bilancio non può che prendere le mosse da una constatazione: e cioè che, un poco paradossalmente, una Chiesa che più di altre è stata colta, per così dire, di sorpresa dal Concilio, e che tale evento aveva concorso solo in limitata misura a preparare - al di là della grande intuizione di un outsider dell’apparato ecclesiastico, Giovanni XXIII -, è stata tuttavia, nei successivi decenni, fra quelle che le indicazioni conciliari hanno recepito con maggiore entusiasmo e anche, nel complesso, con maggiore equilibrio, riuscendo sostanzialmente a contemperare, e a superare, le resistenze dei conservatori e talune intemperanze di generosi, ma non sempre lungimiranti, innovatori.

All’indomani del Concilio mancava in Italia una vera collegialità episcopale (solo sulla spinta del Vaticano II si è formata e progressivamente affermata la Conferenza episcopale italiana); si registravano forti ritardi nella ricerca teologica, ancora monopolizzata da una “scuola romana” in genere fortemente conservatrice; era ancora agli albori la riscoperta della centralità della Parola di Dio; prevaleva, in generale - salvo che in aree, soprattutto nell’Italia settentrionale, più aperte all’“aria nuova” che proveniva da Oltralpe -, un cristianesimo sacrale e devozionale, caratterizzato da una religiosità popolare ancora ricca di valori ma culturalmente povera e spesso spiritualmente asfittica.

Nell’arco di questi anni, molti di questi limiti sono stati superati e significativi passi avanti sono stati compiuti: nel rinnovamento della liturgia, nel ritrovato amore per la Bibbia, nel nuovo impulso dato alla teologia e alla cultura cattolica in generale, nella valorizzazione del nuovo protagonismo laicale. In complesso, il bilancio della recezione del Vaticano II in Italia può essere considerato positivo.

Rimangono, tuttavia alcune zone d’ombra, che attendono di essere illuminate nella nuova stagione che si apre al termine di questo primo cinquantennio. Si tratta, più che di fare una sorta di lunga elencazione di incertezze e di ritardi, di individuare alcuni punti nodali di questa augurabile “seconda fase” del cammino postconciliare della Chiesa italiana. Assai ampio dovrebbe essere il panorama da tracciare, ma è giocoforza limitarsi, in questa sede, a segnalare alcuni “nodi” particolarmente problematici.

1 - Il primo e fondamentale “nodo” da sciogliere è quello che riguarda la presenza e il ruolo della Chiesa nella società italiana: di dominio o di autentico servizio? La posizione conciliare era su questo punto assai netta, a tutto favore dell’umile servizio al mondo; ma persistono nostalgie trionfalistiche e, mentre si riconosce pressoché da tutti che il tempo della cristianità è finito, si fatica a trarne le conseguenze. Un esempio classico è rappresentato dall’attuale prassi battesimale, ancora quasi generalizzata ma molto spesso quasi soltanto “per tradizione”. Fino a che punto questa “tradizione” potrà continuare (e sarà degna di essere conservata?). Prendere sul serio la constatazione della fine della cristianità presupporrebbe inoltre una radicale riorganizzazione delle, spesso pesanti, strutture ecclesiali e passare da un “cristianesimo stanziale” (che attende nelle parrocchie i fedeli) a un “cristianesimo itinerante”, che cerca gli uomini là dove essi sono; ma questa presa di coscienza è, tanto nell’apparato ecclesiastico quanto in molti credenti, ancora embrionale.

2 - Un secondo “nodo” che - nonostante le solenni enunciazioni conciliari e le successive indicazioni provenute dal Sinodo mondiale dei vescovi hanno portato alla pubblicazione della Christifideles Laici di Giovanni Paolo II (1989), deve essere ancora sciolto - è quello dell’attiva e convinta partecipazione dei fedeli laici, e non solo di piccole élite, alla missione evangelizzatrice della Chiesa attraverso una forte e incisiva presenza nel mondo. Si ha spesso l’impressione che il “popolo di Dio” - dalla Lumen Gentium riconosciuto come categoria centrale nella Chiesa - sia ancora, nella realtà delle cose, un corpo ancora amorfo; né sembrano godere di buona salute - per riconoscimento degli stessi vescovi, come è avvenuto in occasione del convegno ecclesiale di Verona del 2006 - quegli organismi di partecipazione che il Concilio ha suggerito e che o non sono stati attuati (come un “Consiglio dei laici” italiano) o vivono spesso di vita grama (come i Consigli pastorali diocesani e parrocchiali). Nessuna reale nuova evangelizzazione dell’Italia potrà avvenire senza l’attivo coinvolgimento di quel “popolo di Dio” che è in grandissima maggioranza composto di laici. La stessa crisi delle vocazioni presbiterali e religiose potrebbe essere letta - ma quasi mai è interpretata in questo senso - come un forte appello alla riscoperta dei carismi laicali.

3 - Un terzo problema aperto è quello della posizione della donna nella Chiesa. Nonostante le indicazioni del Concilio e del successivo magistero (in particolare di quello di Giovanni Paolo II), la Chiesa italiana continua ad avere una caratterizzazione fortemente unipolare, in senso maschile, anche negli ambiti e negli spazi che di per sé non sono esclusivi dei ministri ordinati. Non è in questione quello che potrebbe apparire un falso problema - e cioè l’ordinazione delle donne - ma il riconoscimento di un’effettiva presenza della donna in numerosissimi ambiti (dalla predicazione all’insegnamento della teologia, dall’animazione di comunità al coordinamento di specifiche aree pastorali) per i quali non è richiesta l’ordinazione. Del resto, molte norme che riguardano la donna nella Chiesa (per esempio, nell’ambito del diritto canonico) non hanno alcun fondamento dogmatico o scritturistico e vanno ricondotte a una lunga tradizione meritevole di essere ripresa e riconsiderata alla luce della nuova attenzione posta dal Concilio all’area della femminilità.

Numerosi sarebbero i “luoghi” di un insegnamento, quello conciliare, da riprendere e da rivisitare. È augurabile che, eventualmente in un’assise straordinaria del “popolo di Dio” che è in Italia, si abbia il coraggio di fare uno schietto e disinibito bilancio di ciò che del Concilio è passato e di ciò che è invece rimasto imprigionato nelle secche di un corpo ecclesiale non sempre disponibile al rinnovamento. Il 50° del Vaticano II è per la comunità cristiana una grande occasione di verifica - e se necessario di “revisione di vita” - che non dovrebbe assolutamente passare sotto silenzio.

In estrema sintesi, il Vaticano II potrebbe essere considerato un “cantiere” ancora aperto, in una Chiesa sulla quale dovrebbe essere idealmente piantato il classico cartello “lavori in corso”. Il Vaticano II è un work in progress, la cui graduale attuazione può essere considerata ancora agli inizi: in questo senso il Concilio è assai più avanti a noi che dietro di noi, e dunque la sua è una sorta di paradossale “storia” che non può limitarsi alla semplice ricostruzione di ciò che è avvenuto ma deve fare i conti - prima che si possa tracciare un definitivo bilancio - con ciò che deve ancora accadere, sia sotto il profilo delle indicazioni operative ancora da tradurre in pratica (e non sono poche), sia dal punto di vista dello spirito con il quale alcune indicazioni sono state offerte alla Chiesa post-conciliare.

Le linee ideali di questo percorso sono state tracciate dalle quattro grandi costituzioni: punto di partenza è il rinnovamento della liturgia (Sacrosanctum Concilium), quale fondamento dell’intera vita del cristiano, come momento fondamentale di adorazione e insieme di operoso impegno nel mondo; la riscoperta della Parola di Dio (Dei Verbum) è la condizione necessaria per instaurare un nuovo e più vitale rapporto sia con le dinamiche interne alla Chiesa sia in ordine al fondamento ultimo della sua missione; nasce da qui una nuova autocoscienza della Chiesa (Lumen Gentium) come condizione necessaria per il suo rapporto di umile e operoso servizio al mondo e alla storia (Gaudium et Spes).

Né è un caso che proprio quest’ultima costituzione conciliare - quale conclusivo servizio che la Chiesa ha inteso a rendere al mondo, prima ancora che a sé stessa - recuperi pienamente quella sorta di “estroversione” di cui già la costituzione sulla liturgia aveva posto le fondamenta allorché aveva ricordato - prendendo definitivamente le distanze da una visione chiusa e intimistica del culto e a partire dalla consapevolezza che esso era a un tempo la “fonte” e il “culmine” della vita della Chiesa (n. 10) - che l’autentico culto a Dio avrebbe potuto essere soltanto il punto di arrivo di un lungo cammino incentrato sulla conversione e sulla riscoperta della fede (n. 9). Una sorta di filo rosso collega dunque fra loro il punto iniziale e il punto terminale del concilio. Sacrosanctum Concilium e Gaudium et Spes, in una sorta di inter-relazione alla luce della quale il “prima” e il “dopo” erano strettamente connessi fra loro: né l’adorazione a Dio poteva essere autentica e pura senza l’impegno nel mondo, né l’immersione della storia poteva avere senso se essa non avesse portato gli uomini e le donne di ogni tempo alla preghiera, all’adorazione e al continuo rendimento di grazie. Perché questo ideale si realizzasse era necessario - alla luce, soprattutto, della Lumen Gentium - che la Chiesa assumesse piena consapevolezza di sé e recuperasse la ricchezza e la varietà dei compiti, delle responsabilità, dei carismi dell’intero popolo di Dio, con il passaggio da una comunità tentata di identificarsi (e di essere identificata) nella sua sola dimensione gerarchica a una Chiesa “popolo di Dio”, e per questo varia, articolata, complessa e qualche volta complicata perché arricchita da una pluralità di voci che, per confluire nell’unico coro, avrebbero dovuto essere, una per una, riconosciute e valorizzate.

È forse proprio questo - il sogno di una Chiesa unita e insieme plurale, e per questo capace di superare antiche e nuove divisioni - il messaggio più significativo che il Vaticano II ha affidato alle successive generazioni cristiane: essere Chiesa in un modo nuovo, articolato e pluralistico, capace di conciliare unità e diversità, senza sopprimere alcuna voce, così da offrire agli uomini del nostro tempo l’immagine di una comunità libera e aperta, nella quale è bello riconoscersi e per la quale è gioioso offrire la propria vita, come hanno testimoniato i martiri di ogni tempo.

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