È una città in fermento, Assisi. In attesa del Papa le
strade brulicano di giovani e adulti di ogni parte del mondo che si confrontano
sulle rispettive esperienze di dialogo e fede. Sulle politiche che, nelle aeree
più in crisi del pianeta, tentano di allargare gli spazi di democrazia per
prosciugare il brodo di coltura che alimenta i terrorismi. I 29 panel e i due
forum che tra mattina e pomeriggio hanno animato l’incontro Sete di pace, hanno
affrontato i temi dell’economia e dell’informazione, dell’accesso all’acqua e
al cibo. Dal Giappone, padre Sottocornola, da anni impegnato nel dialogo con il
buddismo ha affrontato il tema del martirio dei cristiani nel XX secolo, Rebwar
Udish Basa ha tentato di spiegare come l’Iraq possa uscire dalla crisi partendo
dalla sua esperienza personale di persona che ha visto «uomini e donne come noi
fatti a pezzi, uccisi, carcerati, violentati, abusati. Ho perso parenti, amici,
professori, sacerdoti, persone care. Il mio Paese è diviso, tutti sono contro
tutti»; l’arcivescovo di Karachi, Joseph Coutts ha ricordato il centro di studi
pakistano istituito più di 50 anni fa per promuovere la comprensione tra
musulmani e cristiani…
Al mattino l’esperienza positiva e fragile della Tunisia a
quasi sei anni dalla rivoluzione dei gelsomini e a uno dalle libere elezioni. Il premio Nobel per la pace
dello scorso anno Amer Meherzi, con il primo vicepresidente del Parlamento, Abdelfattah
Mourou, con l’attivista dei diritti umani Ayachi Hammami e con il giornalista
Slaheddini Jourchi hanno ricordato l’importanza, in Tunisia, dei corpi
intermedi. «È grazie ai sindacati, all’unione
degli industriali, all’ordine nazionale degli avvocati e alla lega tunisina per
i diritti umani se la società civile è riuscita a imporre alla classe politica
litigiosa di riunirsi per giorni e giorni per arrivare a una soluzione senza
violenza mentre gli estremisti spingevano per una soluzione simile a quella
dell’Egitto».
Mourou, in particolare ha ricordato che «noi siamo un islam
democratico , che è in parlamento perché eletto, ma che, se non avesse i voti
della gente non cercherebbe di occupare il potere. In Tunisia c’è la possibilità
di partecipare. Bisogna togliere il pretesto che usano i terroristi di dire che
non hanno diritti e che non c’è altro modo per farsi valere che la violenza.
Questo non è vero, il metodo di dialogo comprende tutti, anche gli estremisti.
Anche l’Europa ha fatto esperienza dei totalitarismi, con Hitler, ci sono state
le brigate rosse, ma voi siete stati in grado di sconfiggere il terrorismo che
ha ucciso Aldo Moro con la democrazia. Anche noi vogliamo tutelare il nostro
Paese tramite la democrazia».
I pericoli vengono da una economia in forte crisi
(«perché l’Europa che ha aiutato economicamente il regime corrotto di Ben Alì è
oggi così prudente con noi?», si chiedono i tunisini), da una democrazia ancora
giovane che patisce la crisi di fiducia delle elite.
«Noi stiamo lavorando per
delle riforme profonde, per una rete istituzionale sempre più collegata alla
rete della società civile» spiega Jourchi. «Ma abbiamo bisogno di fondi perché
non possiamo resistere a lungo. E l’Europa dovrebbe intervenire sapendo che la
Tunisia è in una posizione strategica, può diventare un varco per il
terrorismo».
Ma qualche spiraglio si sta aprendo, come ha ricordato Antonio Tajani, vicepresidente vicario del Parlamento europeo, visto che l'Europa, proprio nei giorni scorsi ha varato una sorta di piano Marshall per la Tunisia mettendo sul piatto 500 milioni di euro per lo sviluppo economico del Paese..