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giovedì 24 aprile 2025
 
Scuola
 

Studenti e insegnanti speciali: questione di "sostegno"

12/12/2016  L’amore di una famiglia è tutto per un bambino con gravi disabilità. Ma la scuola può e deve fare molto. Come è successo a Cecilia, grazie alla sua bellissima classe e alla formazione delle sue maestre

È dal 1974 che i bambini con disabilità frequentano la scuola senza essere confinati nelle classi speciali. Per loro si è poi aggiunta l’istituzione dell’insegnante di sostegno. Oggi sono 124.572, molti sono specializzati, hanno affrontato un concorso ma non sono ancora abbastanza e nemmeno adeguatamente distribuiti sul territorio. Lasciano così sguarnite le scuole che si trovano costrette a privarsi del loro aiuto o a scegliere personale non sempre idoneo. Eppure la realtà mostra quanto questi insegnanti “speciali” possano contribuire a rendere più civile e accogliente il nostro Paese.

Orsola Vetri

Cecilia ha 12 anni, capelli neri e occhi scuri. Carattere deciso, ama la musica rap, la neve e gli hamburger. Seduta a terra sull’erba, nel cortile della scuola Rinnovata Pizzigoni di Milano, rivolge gli occhi all’asinello che le sta di fronte, e fa una smorfia: «Non le piace spazzolarlo, ci abbiamo provato in cinque anni di scuola elementare, ma non c’è stato verso».
Giulia Scolari, 30 anni di esperienza in cattedra, è stata la sua maestra. Ad affiancarla, un’educatrice e un’insegnante di sostegno. «La bravura è lasciata alla buona volontà, come in tutte le cose. Occorre soltanto avere voglia di imparare», ci dice, rispondendo così al nostro sguardo di lode nei confronti suoi e dei colleghi dopo aver visto le foto su un iPad: Cecilia in gita a scuola natura, intenta a pigiare l’uva con i piedi, a impastare la pizza, a far scivolare un ferro da stiro su una maglietta ben tesa, a nuotare dentro la piscina dell’istituto.
La Rinnovata Pizzigoni è una scuola di metodo, è immersa in uno spazio naturale che comprende piante e animali, insegna i contenuti partendo dall’osservazione. Qui Cecilia ha trovato il suo ambiente e i suoi compagni e qui torna sempre volentieri anche oggi che frequenta ormai la prima media.
«Giulia non l’ha mai trattata come se fosse diversa e questo era fondamentale. Non sempre ciò accade, siamo stati molto fortunati», ci spiega mamma Sharon. Un dottorato in Storia dell’arte e una passione per la ricerca che ha applicato a tutto campo: «Cecilia non ha una diagnosi, la sua malattia non è genetica. Una parte del cervello non si è formata e dopo la nascita è arrivata anche un’emorragia cerebrale: le hanno dato cinque giorni di vita e prognosi vegetale, hanno diagnosticato anche cecità e sordità, e che non avrebbe mai camminato».
Oggi vede, sente e cammina. «Abbiamo trascorso il suo primo anno di vita in vari ospedali italiani. Nel frattempo avevo assunto uno studente di neurochirurgia per fare ricerca su di lei e anch’io mi sono messa a studiarla. Poi l’abbiamo portata a Los Angeles, io sono americana, è stata operata nove volte». E la sua vita è cambiata: «Lì sono molto attivi, hanno detto che non doveva stare più a letto. Ha cominciato ad andare in palestra, la seguiva gratuitamente una terapista per gli occhi perché non era affatto cieca, ma doveva imparare a usarli».
E via via ha cominciato a vivere: oggi fa surf con un’associazione di surfi„sti volontari, fa snowboard in montagna con i fratelli, Ariel di 10 anni e Davide di 16, su uno slittino creato apposta per lei. I compagni di classe la circondano, la aiutano, la invitano alle feste: «Non bisogna pretendere di fare le stesse cose con tutti allo stesso modo e nello stesso momento: in classe erano 25, tutti diversi. Lei non parla ma usa l’iPad e a volte i bambini copiavano da lei l’analisi grammaticale, guardando che cosa schiacciava», racconta Giulia, che è andata in America due volte insieme alla famiglia di Cecilia per formarsi e conoscere l’équipe che la segue lì, dove non mancano fi„sioterapisti, logopedisti e terapisti occupazionali nelle scuole, come „figure di sostegno a chi sostiene.
«Cecilia costringe a un lavoro profondo sul modo di intendere l’impegno educativo», spiega Chiara Penzo, sua educatrice per cinque anni, «Mi ha insegnato a non fermarmi all’apparenza». Continuità didattica, lavoro per obiettivi, senza paura di modi„care il tiro, collaborazione e fiducia tra scuola e famiglia, nuove tecnologie e aggiornamento costante, questi gli ingredienti. E poi tanto cuore, tanta empatia: «Ha un carattere meraviglioso», dicono i compagni. « È lei la più felice della nostra casa», dice il fratellino Ariel mentre la guarda camminare tra gli alberi.

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