Lo zaino sulle spalle, all’uscita da scuola. E come tutti i ragazzini, il cellulare sempre in mano, per rispondere ai messaggini e per farsi i soliti selfie. Ma quello che è successo a San Giovanni a Teduccio, alla periferia di Napoli, è sconvolgente.
Un gruppo di teenagers passa di fianco al luogo di un delitto, davanti alla fossa dove era stato sepolto il corpo di un ragazzo di diciotto anni, ammazzato a colpi di pistola.
Con la freddezza che molti attribuiscono ad alcuni giovani di oggi, quelli che alcuni osservatori definiscono la “quiet generation”, perché sembrano avvezzano a ogni tipo di immagine, che osservano come se fosse virtuale, sorridono e si scattano un selfie, da mandare agli amici.
«Sapevano benissimo ciò che era successo: ho sentito che dicevano fra loro: ora lo fotografo per mandarlo a mia madre», ha raccontato sotto choc Marco Sales, il reporter che ha ripreso la scena.
La vittima era un giovane incensurato, Vincenzo Amendola. Il 5 febbraio scorso era sparito e per cercarlo i familiari si erano rivolti anche alla trasmissione televisiva "Chi l'ha visto". Lo hanno trovato dopo due settimane di ricerche, sepolto sotto terra, in quel campo vicino agli istituti scolastici e al parco pubblico intitolato a Massimo Troisi. Colpito alla testa da uno, forse due colpi.
La squadra mobile ha già fermato un amico della vittima, 23 anni e piccoli precedenti. Il movente pare essere passionale, anche se non si esclude una "punizione" della camorra. Fin qui la cronaca.
Ma mentre l'inchiesta va avanti, è l'immagine dei "selfie" davanti alla buca a fare il giro della rete.
Il direttore del carcere minorile di Nisida Gianluca Guida, interpellato nelle pagine della cronaca napoletana di La Repubblica, ha dichiarato: «Certi ragazzi ormai sono corazzati da un vuoto pneumatico che li circonda e li estrania da ogni emozione. Ai nostri occhi quella fossa rappresenta una persona uccisa. Guardandola possiamo indignarci, commuoverci, provare rispetto verso chi non c'è più. Per questa generazione, invece, l'unico mezzo per entrare in relazione coi fatti è lo strumento mediatico. La foto è il modo con il quale si impossessano di un evento o di un luogo, ma lo fanno senza emozioni. Questa difficoltà a entrare in empatia con le situazioni e con le persone rappresenta un campanello d'allarme».
Purtroppo lo si vede sempre più spesso: il cellulare è come un mezzo per allontanare i fatti e immagazzinarli in un mondo lontano, virtuale. Sia che siano belli, come una giornata in riva al mare, sia che siano brutti, vengono immagazzinati e dimenticati nel cellulare, come in una sorta di inceneritore globale. Solo un dolore o un'emozione forte, che tocca da vicino, scuote davvero, e allora anche la nuova generazione dei selfie ritorna nel mondo reale.