Padre John Mathiang Machol nel giorno della sua ordinazione, insieme a monsignor Cesare Mazzolari, vescovo di Rumbek fino alla morte il 16 luglio 2011.
«Fermate subito questa guerra insensata e soccorrete le popolazioni colpite, prima di pensare alla spartizione dei posti di potere. Ormai domina la cultura della vendetta, e più la guerra continua, più questa cultura si radicherà». Continua a rimanere inascoltato il grido dei leader cristiani sud sudanesi, riuniti nel South Sudan Council of Churches (Sscc).
E la situazione, da dicembre 2013, quando il presidente Salva Kiir Mayardit accusò l'allora suo vice Riek Machar di stare preparando un golpe, è precipitata, giorno dopo giorno. Oggi il Sud Sudan è piombato in una guerra fratricida di cui non si vede la fine. «È una guerra di potere tra Salva Kiir e Machar», spiega padre John Mathiang Machol, coordinatore della Diocesi di Rumbek (città capitalo dello Stato dei Laghi), incontrato a Verona, nella sede dei Missionari Comboniani.
Kiir e Machar da tempo erano in disaccordo e si contendevano il controllo del governo e del loro partito, il Movimento per la liberazione del popolo sud sudanese (Splm). «Tuttavia», aggiunge padre John, «essendo Kiir di etnia dinka (il gruppo etnico più popoloso del Paese) e Machar di etnia nuer (il secondo del Paese per dimensioni), è diventata una guerra etnica. Tribù contro tribù, villaggio contro villaggio. I politici dividono, prima eravamo tutti uniti contro Khartoum. E non dimentichiamo che la rivalità tra i due è legata anche alla gestione delle immense risorse petrolifere e idriche (il Nilo) del nostro Paese, risorse che peraltro non determinano ricadute positive in termini di benessere per la popolazione».
Il bilancio è impressionante. Interi villaggi rasi al suolo, famiglie separate, attentati e omicidi, abbandono dei feriti, violenze sessuali e abusi. Più di 13 mila bambini sono stati reclutati in gruppi armati di entrambe le parti in conflitto. Una catastrofe umanitaria senza precedenti, classificata dalle Nazioni Unite, di livello 3, ovvero paragonabile alla Siria.
Settantamila persone sono già morte, oltre 2 milioni sono gli sfollati, 120 mila persone sono nei campi profughi dell'Onu, almeno 4 milioni di persone sono a rischio sopravvivenza, 50 mila bambini potrebbero morire prima della fine dell'anno. «La guerra non dà tregua alla povera gente, non c'è più sicurezza, la situazione è drammatica», evidenzia padre John.
Eppure il referendum quasi plebiscitario del gennaio 2011, che aveva visto oltre il 90 per cento della popolazione votare a favore dell'indipendenza, poi proclamata ufficialmente il 9 luglio 2011, aveva fatto ben sperare. Dopo vent'anni di guerra civile, tra nord e sud, il Sud Sudan era entrato nella storia come 54° Stato africano.
Un grande passo per un Paese, dove l'80% della popolazione vive di agricoltura, totalmente privo di infrastrutture ‒ solo il 35% delle strade è asfaltato, un po' si corse ai ripari nella capitale Juba un mese prima dell'arrivo dei Capi di Stato per la celebrazione dell'indipendenza ‒ con sistemi educativi e sanitari quasi inesistenti, e un'economia fondata quasi unicamente sull'estrazione del petrolio, ma senza alcuna pipeline o raffineria. Il petrolio dev'essere raffinato in Sudan prima di essere commercializzato.
Tuttavia, da quella pace ci si aspettava tantissimo. Ma il sogno è durato poco. Lo scorso 2 febbraio ad Addis Abeba, in Etiopia, era stata firmata un'intesa per la cessazione delle ostilità, in attesa di un vero e proprio accordo di pace, ma a inizio marzo già i negoziati si erano arenati. I due leader rivali non hanno raggiunto un accordo sulla ripartizione dei poteri all'interno del governo di unità nazionale che avrebbe dovuto nascere nei mesi successivi. Il punto di maggior attrito era la richiesta di Machar di essere nominato nuovamente vice presidente, alla quale Kiir si è opposto fermamente.
«Solo un governo legittimo», dicono i vescovi cattolici, «potrebbe portare pace, sviluppo e stabilità». Ma la soluzione si allontana, visto che il governo ha deciso unilateralmente di rinviare di due anni le elezioni, previste per quest'anno.
"Il paradosso è che, mentre la gente patisce la fame, il governo investe milioni di euro in armamenti".
Unity, Jonglei e Alto Nilo (tre dei dieci Stati che costituiscono la Federazione sud sudanese) sono le aree “più calde”, dove ribelli e governativi si combattono senza più nessun riguardo a persone o strutture civili. Anche perché il Sud Sudan è un Paese pieno di armi. Non è difficile incontrare qualcuno con un kalashnikov che penzola dalle spalle.
Secondo padre Daniele Moschetti, superiore provinciale dei Comboniani in Sud Sudan, le armi arrivano anche dal Sudan, perché il presidente Omar Bashir fomenta la guerra per approfittarsi della situazione di instabilità. «Il paradosso», riprende ancora padre John, «è che, mentre la gente patisce la fame, il governo investe milioni di euro in armamenti. Noi non abbiamo fabbriche di armi, perciò è evidente che arrivano da fuori. Il governo ne ha recentemente acquistata una partita dalla Cina per 14,5 milioni di dollari. Nessun dollaro, invece, viene destinato alla sanità o all'istruzione».
L'85% dei sud sudanesi è analfabeta e solo il 5% dei bambini riesce a completare il ciclo di scuola elementare. La mortalità infantile è del 75%; un'altra piaga è la malnutrizione, ancora una volta conseguenza dell'estrema povertà e dell'insicurezza alimentare. Anche se in diverse parti del Paese prevale ormai l'anarchia, alla comunità internazionale sembra non interessare, eppure non sono mancati gli appelli della Chiesa e delle organizzazioni non governative che sono rimaste, nonostante l'escalation di violenza, e che cercano di “salvare il salvabile”.
«La Chiesa», conclude padre John, «si trova immersa nella grammatica della vita e predica la pace, cercando anche di fare pressione sui due contendenti perché trovino un accordo, ma sono troppo lontani l'uno dall'altro nelle richieste. Come Chiesa ci fa male vedere un'altra generazione distrutta».
L'Unione Africana conta sulla Chiesa per raggiungere il popolo, così com'era successo al momento del referendum per l'indipendenza. «Questo perché come Chiesa ‒ specie cattolica e anglicana ‒ siamo più capillari del governo e radicati nella società civile», conclude padre Moschetti. «Per noi è un riconoscimento importante, però bisogna fare presto a sbloccare la situazione, che sta diventando insostenibile».
A complicare ulteriormente una situazione già grave è la stagione delle piogge, che rende impossibile l'arrivo degli aiuti, e che durerà fino a novembre. In Sud Sudan, quando l'acqua cade copiosa, alcune aree rimangono completamente isolate per mesi. Ed è la fame. Inoltre, come sempre avviene in presenza di un'instabilità politica, il Paese è sprofondato in una pesante crisi economica. La moneta locale si sta svalutando con rapidità, facendo impennare i prezzi e rendendo impossibile a molti acquistare cibo.
Padre John con un gruppo di bambini di Rumbek, la diocesi dove il sacerdote è coordinatore diocesano dalla morte di monsignor Mazzolari.
Nel 2014 hanno sofferto la fame quasi 3 milioni di persone, in Sud Sudan
Secondo il Programma Alimentare Mondiale, nel 2014 hanno sofferto la fame quasi 3 milioni di persone (il 30% della popolazione totale). «Le persone che abbiamo incontrato a Nyal, nello Unity, stanno cercando rifugio su piccole isole nelle paludi. Non consumano un pasto degno di questo nome da mesi e sopravvivono a stento nutrendosi con noci di cocco, radici selvatiche, gambi di giglio e semi. I bambini hanno disperato bisogno di aiuto». Così Yasmin Haque, vicedirettore dei Programmi di emergenza dell'Unicef.
A denunciare la situazione è anche l'attivista per i diritti umani sud sudanese Simon Deng. L'uomo, che è cittadino americano, ha iniziato uno sciopero della fame e ha scritto al presidente Obama, per chiedergli di intervenire: «L'America ha favorito la nascita del Sud Sudan, l'America deve riprendere un ruolo di leadership». Deng considera «Kiir e Machar responsabili di questa catastrofe». Siamo di fronte, scrive, a una «tra le più urgenti crisi umanitarie del momento. La violenza è in escalation, ma l'attenzione del mondo è concentrata altrove. Ci sono state gravi violazioni dei diritti umani da entrambe le parti. Bisogna tornare al tavolo delle trattative: americani, Nazioni Unite, Unione Europea e Unione Africana. Non ci sono alternative».
Infine, l'appello accorato: «Presidente lei è l'unico che può fermare questa carneficina. Chiedo un governo ad interim in cui tutte le parti siano rappresentate, la legge ristabilita e i diritti umani rispettati. La guerra in Sud Sudan è inaccettabile».