Tutto è avvenuto nella capitale Juba, quando un manipolo di uomini armati ha cominciato a sparare nel palazzo presidenziale, mentre era in corso una riunione a cui partecipavano sia il presidente Salva Kiir che il suo vice (e avversario) Riek Machar. Presenti anche molti giornalisti sudsudanesi e stranieri, poiché si era alla vigilia della festa nazionale e Kiir presentava alla stampa il discorso con cui avrebbe celebrato i cinque anni di indipendenza dello Stato più giovane al mondo.
Cinque anni di cui tre di guerra civile. Ma – così sembrava, almeno – le cose stavano tornando alla normalità, presidente e vicepresidente si erano messi d'accordo lo scorso agosto e da aprile Machar era rientrato a Juba. Insomma, si tentava di procedere sulla via di una difficile normalizzazione. Ma sono bastati tre giorni di caos per rimettere tutto di nuovo in discussione. E anche se la tregua pare reggere, appena le armi hanno smesso di sparare gli stranieri hanno evacuato la capitale (compresi trenta italiani) e chi resta ha seri timori che la situazione possa degenerare e se ne perda il controllo.
Il Presidente del Sud Sudan Salva Kiir (a destra) e il vicepresidente Riek Machar. In copertina: Una equipe medica del Ccm in azione.
Abbiamo raccolto il racconto di due italiane che lavorano per l'Ong Ccm, Comitato di Collaborazione Medica di Torino. «Le informazioni che arrivano sono poco chiare», spiega Mara Nuzzi, desk officer per il Sud Sudan, che dall'Italia segue col fiato sospeso l'evolversi degli eventi. «Quel che pare certo è che Kiir e Machar non controllino le loro truppe e che per questo la situazione resti molto fragile, anche se a Juba non si spara più».
Ma in tre giorni ci sono stati oltre trecento morti, oltre centro solo quelli dentro il palazzo presidenziale. «La situazione è degenerata, le truppe si sono date ai saccheggi, tanto che per fermare le fazioni c'erano autocarri con gli altoparlanti che passavano, intimando ai militari di tornare nelle caserme e avvertendoli che sarebbero stati arrestati o fucilati se sorpresi a saccheggiare».
«Dopo il cessate il fuoco», prosegue Mara Nuzzi, «Kiir e Machar non hanno fatto dichiarazioni pubbliche e anche questo è anomalo. Non si sa bene nemmeno come interpretare la tregua: cos'è? Provano a trovare un cammino comune? Oppure è un semplice corridoio umanitario, per permettere l'evacuazione degli stranieri? Sì, perché i cittadini sudsudanesi non possono lasciare il Paese. Siamo nel limbo...».
Nuzzi spiega che anche il Ccm ha evacuato il proprio personale con un volo, mettendo al sicuro due keniani e un etiope che, dopo tre giorni sotto proiettili e mortai, soffrono ora di stress post traumatico: «Il nostro compound si trova nella zona più colpita, ci sono state granate, sparatorie, sono stati tre giorni molto difficili per loro. I nostri tre italiani invece si trovavano tutti lontano dalla capitale e non hanno corso rischi. Ma è bene che restino dove sono, per ora. In capitale è rimasto solo il nostro personale locale, per il quale siamo preoccupati».
In attesa dell'evolversi degli eventi, il Ccm continua le attività, verificando gli stock di farmaci per un'eventuale nuova emergenza, poiché il sistema sanitario sudsudanese è sempre in grande difficoltà e le medicine finiscono. «Gestiamo tre ospedali e altri due centri, tutti fuori Juba».
Sfollati sudsudanesi fuggiti dagli scontri da Juba, la capitale.
A differenza degli scontri del 2013, che avevano causato molte vittime civili e avevano una forte connotazione etnica (Kiir e Machar sono i rappresentanti delle due etnie principali, dinka e nuer, sebbene in Sud Sudan ce ne siano in realtà una sessantina), ora le vittime sono state soprattutto militari. Ma oltre 40 mila persone sono sfollate da Juba a seguito degli scontri. «In città passavano addirittura gli altoparlanti che invitavano a spostarsi».
Mara Nuzzi spiega che si tratta solo dell'ultimo di una lunga serie di episodi che riconducono a nodi mai risolti, stragi, migliaia di persone prese di mira intenzionalmente, vendette e odi tra fazioni: «Sono decenni che si fanno la guerra». C'è un particolare che la dice lunga: fino a qualche mese fa il Paese era diviso in 10 stati amministrativi, che ora sono diventati 28: «Non ha senso, in un Paese così povero, moltiplicare la struttura amministrativa e il carico burocratico. Ma l'intento è chiaro: dividere il Paese in parti monoetniche. Politica ed etnia sono mescolate. Impossibile prescindere dall'appartenenza etnica, purtroppo, anche per noi: coi dinka è più facile trattare, mentre coi nuer no perché per principio rigettano tutte le circolari emanate dal governo, complicandoci il lavoro, quando il nostro unico scopo è quello di aiutare la popolazione». Un equilibrio difficile da trovare, per chi lavora sul posto cercando di promuovere il bene di tutti.
Scavando, si arriva come sempre a ragioni economiche: «C'è in ballo il controllo del petrolio, unica fonte di reddito. Da due o tre anni ormai l'estrazione è bloccata dal governo, ma in ogni caso tecnologie e trasporto restano in mano al vicino Sudan. Il Sud Sudan non ha altre risorse, tanto che il 60% del Pil è finanziato dalla cooperazione internazionale e la cifra sale al 95% per la sanità».
Gli scontri sono sempre all'ordine del giorno, ma in genere si tratta di raid per le vacche o di controllo territoriale, negli Stati del nord. Invece quanto accaduto a Juba nessuno se lo aspettava: «Lavoravamo tranquillamente, quando ci è arrivato un messaggio su skype ne quale ci avvertivano che a Juba stavano sparando».
Le fa eco Giovanna Gaiga, project manager della Ong torinese, che abbiamo raggiunto via skype in Sud Sudan. Si trova lontana da Juba: «Qui è tranquillo, mi trovo in una contea a maggioranza dinka. Ci occupiamo soprattutto di cura materno infantile, in cinque strutture sanitarie, collaborando con le autorità locali. L'unica situazione che può degenerare è a Bor, oltre il Nilo, a pochi chilometri da qui. Gli scontri si stanno allargando e lì c'è un campo sfollati che al momento conta 70 mila persone. Dal 7 luglio siamo impegnati a supporto della biometric registration, la registrazione di nuovi sfollati, che doveva finire il 17 ma proseguirà: gli sfollati infatti continuano ad arrivare, anche a piedi, da tutta la contea, un'emergenza nell'emergenza. Ci si aspetta a giorni l'arrivo di altre persone, non direttamente da Juba ma da altri Stati limitrofi, se ci saranno altri scontri. A Bor ce ne potrebbero essere, perché la cittadina è mista, dinka e nuer, ma ciò che più preoccupa è una forte componente di giovani che sono disposti a arruolarsi da una parte o dall'altra semplicemente perché non hanno nulla da perdere: per motivi di interesse o per pochi spiccioli. E questo è il pericolo più grave».
Prosegue Giovanna Gaiga: «L'ambasciata italiana ad Addis Abeba e l'Onu ci hanno comunicato che negli ultimi giorni alcuni soldati hanno commesso taglieggiamenti e minacce di morte verso gli “espatriati” (i lavoratori stranieri). Anche per questo nessuno ora vuole tornare a Juba, anche se è l'unico aeroporto aperto al momento. Qui siamo più al sicuro».
Le Nazioni Unite lanciano appelli a rimanere, danno i numeri degli sfollati a Juba e le indicazioni su dove sono dislocati e chiedono agli operatori umanitari di restare per aiutare in questa delicata fase; dall'altra parte però domandano anche di tenere alta la soglia di attenzione: «Anche loro sono in difficoltà e non possono confermare che la tregua regga. Noi per ora restiamo, ma consideriamo la possibilità di evacuazione. Dipende da come evolveranno gli eventi».
Conclude con amarezza Mara Nuzzi, dall'Italia: «Ho quindici anni di esperienza nella cooperazione, in posti anche difficili come Haiti e la Palestina... ma il Sud Sudan è un Paese allo sbando. Sembra dimenticato da Dio».