Ad Addis Abeba si tratta e in Sud Sudan si spara. È questa la situazione nel più giovane Stato al mondo, indipendente dal 2011 e dal 15 dicembre 2013 devastato dalla guerra civile tra il presidente Salva Kiir e il suo ex vice Riek Machar. Sono i rappresentanti dei due più importanti gruppi etnici, rispettivamente i dinka e i nuer, e fin dall’inizio il conflitto è stato segnato dall’odio etnico mischiato alla brama di potere.
Il 5 novembre, nella capitale etiope, sede dei negoziati, i rappresentanti dei due avversari hanno preso l’ennesimo impegno ad una tregua e a un governo di unità nazionale, che tuttavia appare lontano. «Non esiste la volontà politica da ambo le parti per terminare questo conflitto», ha denunciato il primo ministro etiopico Hailemariam Desalegn. Intanto, in quest’anno di cessate il fuoco violati e accordi firmati ma non rispettati, il Sud Sudan ha scalzato la Somalia dal primo posto della classifica Fragile States Index, che misura i rischi di crollo o di conflitto per uno Stato.
Gli ultimi scontri sono segnalati nel Fangak, nello Stato di Jonglei. «Sono iniziati alla fine di novembre e sono diventati via via più cruenti», ha dichiarato Joe Contreras, portavoce dell’Unmiss. Per la missione Onu in Sud Sudan, questi combattimenti sono tra i più violenti dal maggio scorso.
Padre Daniele Moschetti, provinciale dei missionari comboniani, spiega: «Sta finendo la stagione delle piogge e inizia quella secca. Temiamo che questo, com’è successo lo scorso anno, possa significare la ripresa delle ostilità. Due settimane fa, i governativi hanno riconquistato la zona strategica di Phom, sul Nilo, bruciando le poche case rimaste. Da un anno, si fa piazza pulita di città che continuano a passare da una fazione all’altra, mentre nella capitale Juba si chiudono le radio che danno informazioni scomode».
Se un anno fa, dopo che nel luglio 2013 il presidente Salva Kiir aveva licenziato Machar e tutti i ministri, le tensioni erano esplose a Juba, ora si combatte nei tre Stati di Unity, Alto Nilo e Jonglei, quelli dove prima del conflitto si estraevano 350 mila barili di petrolio al giorno (ora 160 mila). Al momento l’esercito controlla le città, spopolate e ridotte a scheletri, mentre i ribelli le aree rurali, come la palude del Sudd, la più vasta “zona umida” del pianeta dopo l’Amazzonia.
«Qui», racconta padre Daniele, «i civili soffrono maggiormente, gli aiuti lanciati dagli aerei faticano ad arrivare». In queste aree, mentre le Ong e le organizzazioni internazionali se ne sono andate da tempo, i comboniani sono gli unici rimasti: dieci missionari (italiani, messicani, ugandesi) si dividono tra tre parrocchie e ora sono tornati anche tre sacerdoti diocesani. Racconta il provinciale: «Abbiamo un fondo per gli aiuti di emergenza, diamo fili e ami per la pesca, materiale sanitario e ospitiamo persone. Ma soprattutto i confratelli raggiungono a piedi i civili per aiutarli a non perdere la speranza. In questo momento storico, annunciamo il Vangelo attraverso la presenza, più che con la predicazione».
Miliziani sudsudanesi. In copertina: alcuni profughi, fuggiti dalla guerra civile.
Per i vescovi cattolici «non ci sono giustificazioni morali» per continuare il conflitto
I morti stimati sono almeno 10 mila, oltre 1 milione e 900 mila le persone che hanno dovuto lasciare la propria casa (1.300.000 sfollati all’interno del Paese, 600.000 negli Stati confinanti), tra cui più di un milione minori. Nel Paese, la carestia minaccia 4 milioni di persone: a causa dei combattimenti, gli agricoltori non hanno potuto seminare i campi. Quasi a dimostrare che la guerra è la madre di tutte le povertà, ci sono i bambini mutilati dalle armi e quelli con pance gonfie, braccia e gambe scheletriche: per l’Unicef, 235 mila sotto i 5 anni soffrono di malnutrizione acuta grave, mentre 12 mila sono i bambini arruolati come soldati nell’ultimo anno.
«Ogni giorno registriamo nuovi casi di colera», ha raccontato Isaac Gawar, un medico del pronto soccorso del Juba Teaching Hospital, il più importante della capitale. «Si infettano assumendo cibo o acqua contaminati». Sul ciglio delle strade, capita di trovare persone spirate dopo ore di diarrea: se non bevi, ti disidrati e muori.
Secondo Medici senza Frontiere, l’emergenza adesso è la malaria: «Nella zona occidentale, i pazienti curati nel 2014 sono circa 60 mila, il triplo rispetto all’anno precedente». È questa una delle cause per cui il Sud Sudan ha il tasso di mortalità infantile più alto al mondo.
Cinquantuno organizzazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty International, Global Witness, Save the Children e Oxfam, hanno denunciato ambo le parti di crimini di guerra, chiedendo un embargo sulle armi, provenienti soprattutto dal mercato cinese e ucraino. La comunità internazionale è «molto vicina» ad approvare sanzioni nei confronti del Sud Sudan, specie l’embargo al commercio di armi, mentre Usa, Ue e Canada hanno già congelato i conti esteri dei leader dei due gruppi. «Giusto», dice padre Daniele, «anche se la triangolazione dei commerci per arginarla è sempre un rischio».
Mentre nei vari compound dell’Onu hanno trovato rifugio 140 mila dinka e nuer, a seconda di quale gruppo sia minoranza nelle singole zone, tra chi ha lasciato il Paese 200 mila sono scappati in Etiopia, che ospitava già altri 450 mila profughi, soprattutto eritrei e somali. Sopravvivono grazie ai cereali, biscotti energetici, zucchero e olio distribuiti dal Pam, il Programma alimentare dell’Onu. A fine luglio, l’Etiopia ha superato il Kenya, diventando il Paese con più rifugiati di tutta l’Africa; gli altri profughi sudsudanesi si trovano invece in Uganda, Sudan e Kenya.
Juba, un polveroso agglomerato con 500 mila abitanti, è diventata una specie di capitale mondiale degli aiuti: negli ultimi tre anni, nessun Paese al mondo ne ha ricevuti tanti quanto il Sud Sudan: 1,4 miliardi di dollari solo nel primo anno. Per le circa 200 associazioni per lo sviluppo, pubbliche e private, hanno introdotto una targa automobilistica apposita. Eppure, anche prima della guerra, solo l’1% della popolazione aveva accesso all’elettricità e tre quarti della popolazione era analfabeta. «La verifica dell’efficacia degli aiuti», spiega padre Daniele, «è un capitolo importante; talvolta i finanziatori sono riconducibili ai vari Stati esteri che hanno interessi e legami da sostenere. Inoltre, secondo il rapporto Transparency International 2014, il Sud Sudan è il quinto Stato più corrotto al mondo».
Per i vescovi cattolici «non ci sono giustificazioni morali» per continuare un conflitto che «ha incancrenito una cultura di violenza». Anche il provinciale dei comboniani ritiene che, accanto alle emergenze, «la priorità sia lavorare per la riconciliazione tra dinka e nuer, due etnie pastoraliste che hanno la vendetta nel loro codice di relazione».
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