Sarà la volta buona? È quello che si chiedono gli abitanti del Sud Sudan, il più giovane Stato al mondo, dopo la notizia, il 25 agosto, del nuovo impegno a cessare le ostilità tra il presidente Salva Kiir e il suo ex vice Riek Makar, protagonisti di un duro scontro cominciato il 15 dicembre scorso.
Oltre a condannare le molteplici violazioni degli accordi siglati finora, l’intesa, firmata ad Addis Abeba, prevede la formazione di un governo di transizione di unità nazionale. Tempo massimo per realizzarlo: 45 giorni; la precedente data-limite era scaduta l’11 agosto.
Ancora nel mese di agosto si è sparato a Bentiu e Ayod, nello Stato di Jonglei, posizioni che dall’inizio della guerra vengono continuamente perdute e riconquistate da ribelli e governativi, con gravi violenze da ambo le parti. Il 26 agosto, un elicottero russo dell’Onu è stato – pare, le circostanze sono ancora da chiarire – abbattuto da uomini armati, facendo tre vittime.
Inutile dire che i civili pagano le conseguenze peggiori: secondo le Nazioni Unite, i morti sono varie migliaia, 1 milione e 800 mila persone hanno dovuto lasciare la propria casa (1.300.000 sfollati all’interno del Paese, 500.000 negli Stati confinanti), 5.300 sono i casi di colera.
«Mancano le medicine, il cibo, i mezzi di trasporto, le tende. La gente dorme per terra: le capanne sono state bruciate e ora, nel pieno della stagione delle piogge, manca anche l’erba secca per ricostruirle», racconta padre Daniele Moschetti, provinciale dei missionari comboniani. Le zone più colpite sono quelle petrolifere, Jonglei, Unity State e Upper Nile.
Qui – nel Paese c’è un’unica strada asfaltata – è difficile far arrivare gli aiuti e in alcuni casi gli sfollati sono raggiunti solo da lanci di pacchi viveri di velivoli delle Nazioni Unite. A Juba, la sicurezza è garantita da un cordone di soldati ugandesi; due volte hanno bloccato i nuer, l’etnia di Machar, che provavano ad attaccare la capitale. Tra le situazioni più critiche, c’è quella dei 40 mila nuer che abitavano in città, la maggior parte minori, rifugiati nei quattro compound delle Nazioni Unite per paura delle rappresaglie dei dinka, l’etnia maggioritaria, quella del presidente Kiir. Spiega Padre Daniele: «Vivono in spazi stretti, mangiando una volta al giorno, hanno il terrore di uscire, ora abbiamo iniziato un po’ di scuola; con le piogge, la tendopoli diventa un inferno».
In tutto il Paese, sono 100 mila i protetti nei compound Onu: se nella capitale sono i nuer – in minoranza – a rifugiarsi, in altre zone con proporzioni etniche invertite gli sfollati sono dinka.
Salva Kiir, presidente del Sud Sudan, al momento della firma dell'accordo. In copertina: un campo di sfollati nei pressi di Juba, la capitale sudsudanese.
Aggiunge il missionario comboniano: «Almeno nella capitale la vita quotidiana comunque va avanti, ma il denaro è sempre meno, confiscato dal governo». Spesso è servito per comprare le armi. L’ultimo carico, partito dai porti cinesi di Dalian e Zhanjiang, è arrivato a luglio a Mombasa: più di 1.000 tonnellate di armi leggere e munizioni, per un valore di 38 milioni di dollari. Finite nelle mani di chi? Sia delle forze governative, sia dei ribelli secondo Amnesty International.
Pechino, principale acquirente del petrolio sudsudanese, da un lato si impegna a mandare 850 soldati per la missione di pace e vota al Consiglio di sicurezza dell’Onu la condanna per le violazioni del diritto internazionale umanitario, dall’altro invia armi, rischiando di prolungare il conflitto all’infinito. Non è l’unico attore ad avere un comportamento contradditorio: il Sudan, da cui il Sud Sudan si è staccato nel 2011 dopo 40 anni di guerra, formalmente appoggia Salva Kiir, ma molti sospettano che in realtà sostenga i ribelli.
Ora, sperando nella pace firmata ad Addis Abeba, il nemico è l’imminente carestia, «la peggiore al mondo» per le Nazioni Unite: 4 milioni le persone minacciate, quasi mezzo Paese; nell’immediato, 50 mila bambini rischiano di morire per grave malnutrizione. «Si tratta di una crisi causata dall’uomo», spiega Edmond Mulet, che segue le operazioni di peacekeeping per l’Onu. «Certo», gli fa eco Padre Daniele, «se i combattenti non lasciano tornare gli sfollati nei loro villaggi, non potranno coltivare i campi».
Nel frattempo, oltre 8 mesi di guerra hanno radicalizzato le divisioni, sempre più di carattere etnico, mentre il governo sta assumendo un atteggiamento autoritario. Per un servizio sgradito, ha chiuso Radio Bakhita, una delle nove stazioni cattoliche, ed è dovuto intervenire l’arcivescovo di Juba per liberare il giornalista imprigionato.
Padre Daniele, che rappresenta i superiori dei 43 istituti religiosi presenti in Sud Sudan, sta cercando fondi per un progetto che partirà ad ottobre a Juba proprio per guarire i traumi di guerra. Non è un ospedale, ma un centro di formazione umana e spirituale. Spiega: «Dopo aver costruito insieme lo Stato più giovane al mondo, dinka e nuer sono tornati a scontrarsi, ora dobbiamo imparare a risolvere i conflitti. Serve un luogo dove i diversi gruppi etnici possano ritrovarsi, dialogare e condividere le sofferenze, le paure, ma anche le loro potenzialità e ricchezze culturali, senza pregiudizi. In una parola: costruire la pace, insieme».