Anna Sambo, responsabile progetti di Fondazione Avsi in Sud Sudan
Nei giorni in cui sono stati sospesi a tempo indeterminato i negoziati di pace tra ribelli e Governo, previsti in Etiopia, ad Addis Abeba, a partire dall'11 febbraio, pubblichiamo integralmente la testimonianza di Anna Sambo, responsabile progetti di Fondazione Avsi in Sud Sudan. Si tratta di riflessioni che vanno a ruota libera, spaziano da considerazioni di ordine pratico, a quelle più alte sul senso del proprio impegno di cooperante in un Paese africano, passando per le osservazioni di paesaggi aspri e incantevoli al tempo stesso. E nel suo racconto c'è posto anche per una grande verità, pronunciata da un dottore sudsudanese: non c'è speranza per chi non impara dal proprio passato. Nelle parole di Anna, invece, c'è disincanto ma anche determinazione, ferma volontà a proseguire una ricerca che è propria di ogni essere umano ovunque esso si trovi. La ricerca del Bene, anche dove meno ce lo si aspetta.
Ecco, sono arrivata a Juba oggi pomeriggio. Il viaggio in macchina è stato lungo e caldo. La gente nei villaggi fa la solita vita e il Sud Sudan (in particolare l’Eastern Equatoria) è così bello, anche nella stagione secca. Giallo, nero con qualche macchia di verde e fiori ogni tanto. La musica della radio ci ha accompagnati. Io, Paola e James, l’autista.
Juba non è deserta ma quasi. Nessuna traccia di traffico. Negozi aperti, ma molti chiusi. Poca gente per le strade, pochi anche i militari. Ho ritrovato lo staff locale. C’è una pesantezza diffusa e io mi chiedo cosa posso fare, qui, con loro. Ora sembra che l’unico interesse sia lo stipendio. Ora, in questo periodo di rinnovo dei contratti. Ognuno si fa i suoi conti, con il pound sud sudanese che vale sempre meno e i prezzi che salgono, forse anche perché la merce scarseggia. A Juba la frutta e la verdura ci sono. Ma a Torit, dove ero fino a stamattina, i camion che portano frutta e verdura dall’Uganda arrivano con meno frequenza. Quindi noi abbiamo mangiato solo verza e pomodori, banane e qualche ananas, in queste settimane. Siamo qui da poco, ma sembra di non essere mai stati in Italia. Per tutto quello che è successo.
E ora Juba. Arrivare in città, accolta dal Nilo, è stato così bello. Poi però la pesantezza negli sguardi dello staff e il Dr. Ben, il preside della nostra facoltà di educazione, che ci racconta la preoccupazione. Ce la racconta con gli occhi e con le parole.
Machar ha detto che sta organizzando il movimento di liberazione del Sud Sudan. Si dice che sia da qualche parte nel Jonglei (una terra fatta di paludi, per me piena di fascino, ma piena di morte) e che dica che ha armi sufficienti per portare “il cambiamento”. Il Dr. Ben dice che se questa gente non impara dal passato, non c’è speranza.
Racconta che nuer e dinka continuano ad ammazzarsi, come a Juba cosi negli Stati settentrionali del Sud Sudan. Dice che è previsto l’inizio di nuovi negoziati ad Addis Abeba, questo venerdì, il 7 febbraio. E Machar non si vuole presentare se Salva Kir non libera i prigioneri di dicembre, quelli della parte di Machar.
Non c’è speranza negli occhi del Dr. Ben: è un’attesa senza durata e senza aspettative. Forse solo paura. Ma non ancora l’altro giorno viaggiando tra Isohe e Torit pensavo che l’unica cosa che ci fa stare qui è il desiderio di stare con loro. Che non è un desiderio di fare del bene ai poveri. Non c’entra con il moralismo. E’ solo qualcosa che accade.
Arriva la prima sera a Juba, dopo tutto ciò che è accaduto. Bisogna che si sappia, tutto. Che si sappia, anche, che andare a visitare gli infermi non è una metafora, ma è quello che va fatto. Non avere paura di fronte a una condizione, come la morte, che occupa gran parte della nostra vita. Perché non guardare tutto ciò? Per provare a vederci del Bene.