Juba (SudSudan), 27 febbraio
Di questa giornata resta incancellabile la testimonianza di suor Mary Mumbi Mariga, keniota, comboniana da 40 anni. La incontro nella casa dei Comboniani di Juba.
Suor Mary viene da Malakal, la città del nord in mano ai ribelli e devastata dalla guerra civile.
È appena uscita dall’inferno grazie a un volo dell’Onu, insieme a una consorella. Un’altra suora comboniana non è riuscita ancora a partire.
Il racconto di suor Mary è tremendo: «Malakal è devastata. Le strade sono piene di cadaveri abbandonati. Nessuno li seppellisce e i corpi vengono straziati dai cani e dagli avvoltoi. Le donne sono state stuprate prima di essere uccise.
È un massacro. Hanno rubato e distrutto tutto, non è rimasta neppure la più piccola cosa. Mancano il cibo e l’acqua, tutto è sporco. Se continua così, fra i superstiti di sicuro ci sarà una epidemia di colera».
Suor Mary ricorda che nelle scorse settimana
la città, situata nell’Alto Nilo, in una posizione strategica a causa della presenza nella zona di pozzi petroliferi, è stata teatro di scontri continui, con capovolgimenti di fronte.
Dal 18 febbraio la città è caduta in mano ai ribelli ed è cominciato l’inferno. «Hanno preso la città in 30 minuti, A noi suore, siamo tre, hanno chiesto le chiavi delle auto e soldi. Mi hanno portato via anche il cellulare. Tornavano spesso con le armi puntate a chiedere soldi, fino alla sera.
Hanno detto che sarebbero tornati il giorno dopo a uccidere tutti. La gente è scappata nella notte. Un catechista ci ha portato nella chiesa protestante presbiteriana dei nuer. Sono venuti a cercarci lì. Un prete presbiteriano ci ha portato al compound delle Nazioni Unite. Lì attorno c’è un enorme accampamento di persone e
anche lì ci sono state uccisioni a colpi di machete fra le varie tribù».
Suor Mary Mumbi Mariga, scampata dall'inferno di Malakal. In copertina: il piccolo John Simon, che ha solo un anno e mezzo - Le foto sono di Paolo Siccardi.
Dai comboniani ho anche ascoltato il racconto della fuga avventurosa di preti, suore e fratelli laici dalla città di Leer. La sera del 30 gennaio scorso sono scappati a piedi, mentre attorno a loro fischiavano le pallottole. Sono rimasti nascosti per quasi 20 giorni. Con i pochi soldi che erano riusciti a portare via hanno comprato una vacca e delle capre per nutrirsi. Altra gente li ha aiutati durante le loro peripezie.
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La giornata era cominciata con la visita al
Juba Teaching Hospital,
accompagnati da due medici di Amref, un anestesista e un chirurgo ortopedico.
Appena entrati nel cortile dell’ospedale vediamo uscire sei uomini che trasportano una bara. La bara è ricoperta di tessuto blu scuro, con una croce bianca nella parte superiore.
Raggiungiamo il reparto ortopedico, dove sono
ricoverate 116 persone: bambini, donne, soldati. Hanno fratture e traumi alle ossa causati da colpi d’arma da fuoco.
Nel primo letto vediamo un bambino di un anno e mezzo steso con le braccia aperte. È John Simon, ha un anno e mezzo. Viene da Bentiu, una città del Nord teatro di combattimenti. Il piccolo ha la tibia destra fratturata da una pallottola.
La madre è stata uccisa. Il padre Simon, un militare, è accanto al letto con un altro figlio ferito in modo lieve. Il dottor Peter Kilonzo, il chirurgo ortopedico, guarda le radiografie.
Gli chiedo se il piccolo potrà crescere normalmente. Risponde di sì, la frattura verrà saldata senza problemi.
Il problema, per molti di questi feriti, sarà la riabilitazione. Vedo altri bambini, una donna con la gamba sinistra amputata sotto il ginocchio (le hanno sparato mentre tentava di nascondersi sotto il letto), due soldati feriti. Klomont, 26 anni, ha un ginocchio gonfio, anche lui colpito da un proiettile. Una ferita alla gamba tiene a letto anche Onyanga, un altro soldato di 39 anni, con 7 figli.
Il chirurgo ortopedico arrivato qui con l’aereo di Amref conta di poter operare tutti i 116 pazienti nel giro di un paio di settimane.