Padre Christian Carlassare, vescovo della diocesi di Rumbek. Lo scorso 25 aprile è stato ferito in un agguato (foto Ansa).
(Foto Ansa sopra: soldati sud sudanesi durante le celebrazioni dell'indipendenza il 9 luglio 2011).
Era il 9 luglio del 2011 quando il Sudan si divideva e dalla scissione prendeva vita un nuovo Stato africano, la Repubblica del Sudan del Sud. Il processo per l’indipendenza, tuttavia, non è stato pacifico e ha innescato una guerra civile durata cinque anni. Oggi, a dieci anni dalla nascita del Sud Sudan, la situazione umanitaria nel Paese resta molto critica: 8,3 milioni di persone sono in stato di bisogno; il 42,7% della popolazione vive sotto la soglie di povertà assoluta; 1,4 milioni di bambini sono malnutriti; 1,62 milioni di persone sono sfollate e c'è stato un forte aumento di rifugiati e richiedenti asilo, pari a 2,3 milioni. In questo Paese - dieci anni fa sotto i riflettori del mondo, ma oggi quasi dimenticato dai media e dalla comunità internazionale - le sfide per il futuro sono enormi, dalla povertà grave e diffusa alla crisi alimentare ed economica, dalla carenza dell infrastrutture alla frammentazione politica.
Il Sud Sudan è il primo Paese al mondo per numero di profughi e rifugiati e tra i primi cinque al mondo. Ad analizzare la situazione del Paese oggi è il rapporto della Caritas italiana “Generazioni erranti. Un popolo ancora in fuga da fame e violenze”, che fa il punto sul grande esodo dei sud sudanesi e sui sistemi di accoglienza nella regione. Quella del Sud Sudan è «una crisi tra le più dimenticate», si legge nel dossier, «che vive una “pace a singhiozzo” ma dove ancora c’è l’urgenza di tornare a quel sogno comune di dare ai figli del Sud Sudan e alle generazioni future una vita dignitosa».
Da trent’anni la Caritas è impegnata nella regione a sostegno delle fasce più deboli, dei più poveri e dei milioni di sfollati interni e rifugiati in altri Paesi, in appoggio alla Chiesa locale e in coordinamento con la rete internazionale Caritas. Un impegno che si è concretizzato prima in Sudan, in particolare, nel Darfur, poi anche nel Sud Sudan dove dopo l’indipendenza è stata fondata una Caritas nazionale, che si occupa soprattutto di aiuto umanitario a profughi e sfollati. Dal 2016 ad oggi, l'impegno si è intensificato grazie ai contributi della Conferenza Episcopale Italiana con i fondi dell’8x1000 alla Chiesa Cattolica.
Come spiega il rapporto, la maggioranza dei sud sudanesi quando scappano tendono a restare nella regione, ad andare nei Paesi vicini, perché sperano di poter prima o poi tornare a casa. In Itaia ci sono pochissimi sudsudanesi: secondo un dato elaborato su base Istat sarebbero attualmente 98. «Dato che smentisce clamorosamente la retorica secondo cui ci sarebbero milioni di africani in fuga da guerre e povertà pronti a sbarcare in Italia», sottolinea il dossier Caritas. «La situazione del Sud Sudan rimane la più grande crisi di rifugiati in Africa con quasi 2.253.168 di rifugiati e richiedenti asilo che vivono in Repubblica Democratica del Congo (2,5%), Etiopia (16,5%), Kenya (5,8%), Sudan (34,4%) e Uganda (40,9%). […] Si stima che il 75% degli sfollati interni risiedono nelle comunità di accoglienza, mentre i restanti soggiornano in campi o insediamenti». L’esodo ha subìto le conseguenze della pandemia del Covid-19 e delle restrizioni.
Il principale flusso è quello verso l’Uganda, che ha chiuso i confini a causa del Covid a ottobre del 2020 ma ha continuato a registrare ingressi. In Uganda vige un sistema di accoglienza che «consente ai rifugiati la libertà di movimento (tutti i rifugiati registrati ricevono carte di identità e documenti di viaggio), di permanenza negli insediamenti e il diritto a: lavorare, avviare un'impresa, possedere proprietà e accedere ai servizi nazionali, compresa l'istruzione primaria e secondaria e l'assistenza sanitaria». Il Kenya accoglie circa 520mila sud sudanesi e molti di loro sono già di seconda o terza generazione, dato che i primi rifugiati hanno cominciato ad arrivare negli anni Sessanta. Qui «i rifugiati e richiedenti asilo trovano accoglienza nei campi di Dadaab (44%), Kakuma e Kalobeyei (40%) oppure in minima parte nelle aree urbane, principalmente in capitale, a Nairobi (16%)». Ma desta preoccupazione il recente annuncio del Governo di Nairobi di voler chiudere i campi nel Paese, principalmente per ragioni di sicurezza interna.
«Vivendo in Africa posso notare come la speranza in questo continente sia sempre viva», ha osservato padre Christian Carlassare, 43 anni, missionario comboniano e dallo scorso marzo vescovo della diocesi di Rumbek in Sud Sudan, nel corso di un webinar organizzato da Caritas per presentare il dossier. «Mentre in Europa perdiamo la speranza facilmente, in Africa la gente mantiene saldo e forte il grande desiderio di andare avanti. Forse perché qui è sempre stato così: in Africa c’è un grande spirito di resilienza. Dobbiamo allora richiamare la comunità internazione a non perdere la fiducia in questo Paese, per accompagnarlo in un processo che richiederà anni, energie e un cammino comune. I Governi stranieri e gli organismi come la Caritas devono continuare a investire e dare speranza. Bisogna aiutare la pacificazione attraverso lo sviluppo economico, promuovendo investimenti per rilanciare l’economia e la produttività e dare stabilità alle piccole comunità locali. Si deve incoraggiare il processo politico di democratizzazione, pensare a nuovi leader per il futuro del Paese. E’ necessario poi che l’esercito si unfichi (che non sia più diviso in tante milizie), che si incentivi il disarmo dei cittadini e delle milizie armate, che si investa nell’istruzione. La Chiesa cattolica nella diocesi di Rumbek è la realtà principale che promuove la scuola, ancora più dello Stato. Bisogna valorizzare gli insegnanti ancora sottopagati. E poi investire sui servizi della sanità pubblica». Padre Carlassare aggiunge: «La Chiesa cattolica nel Paese vive sfide grandi: in primis quella dell’unità, intaccata dalle logiche tribali. Abbiamo bisogno di una Chiesa estroversa e inclusiva: il Sud Sudan è cristiano, ma raggiungiamo ancora pochi gruppi del Paese. A Rumbek al massimo il 10-12% della popolazione viene raggiunto dalla Chiesa cattolica. Dobbiamo pensare ad arrivare ai giovani, ai villaggi più remoti, portando avanti anche un lavoro ecumenico in accordo con le altre chiese cristiane presenti nel Paese».