Quando si pensa al Nilo la prima cosa che viene in mente è l’Egitto. In questi giorni di Natale, qui a Rhino Camp, tra i profughi sud sudanesi, non si può non pensare a tutte quelle Madonne che come Maria sono costrette a scappare con il proprio figlio appena nato. A mettersi in cammino, viaggi lunghi, estenuanti, a piedi, sotto il sole. Siamo in Nord Uganda, dove il Nilo inizia la sua corsa di quasi settemila chilometri verso l’Egitto. Qui più di un milione di sud sudanesi trova rifugio scappando dalla guerra.
Dopo che siamo stati in Sudan e in Sud Sudan, ci vengono in mente anche questi due Paesi che fino a pochi anni fa erano un unico Stato, il più grande dell’intera Africa. Come in Egitto, anche in Sudan, sia nel Nord che nel Sud, il Nilo è la cosa più importante, è acqua e quindi vita, è via di comunicazione. Per chi vuole andare da Juba a Malakal, il fiume rappresenta l’unico collegamento. Più a Nord sfida e vince il grande Sahara, unico fiume che riesce ad attraversare il deserto, arriva in Egitto e a quel Mediterraneo, lo stesso che bagna la nostra Penisola.
Il Nilo dunque, vero punto di riferimento delle quattro nazioni. È in Uganda che il grande fiume inizia il suo percorso dal lago Vittoria, già carico d’acqua attraversa da Sud a Nord il verde territorio fino a entrare in Sud Sudan, facendo il percorso opposto a quello dei profughi che sempre di più fuggono dalla nuova guerra interna allo Stato più giovane d’Africa, nato il 9 luglio 2011.
Ora da quattro anni si combatte. Nell’ultimo anno e mezzo la guerra si è allargata, bande armate si contendono il territorio non facendo neppure più diretto riferimento alla guerra scoppiata fra i dinka del presidente Salva Kiir e i nuer di Riek Machar il vicepresidente destituito.
Filippo Grandi, Alto Commissario Onu per i rifugiati, recentemente è tornato ad appellarsi a tutte le parti coinvolte perché trovino un accordo e pongano fine alla profonda crisi umanitaria del Paese, oggi la più grave del Continente africano: «Il mondo non può continuare a restare impassibile mentre le persone in Sud Sudan vivono terrorizzate da una guerra senza senso», ha detto il capo di Unhcr, dichiarando che gli effetti devastanti dei combattimenti sono una diretta conseguenza di tragici fallimenti della leadership politica.
«È una crisi dei bambini rifugiati», ha detto Grandi. Il 63 per cento della popolazione sud sudanese ha meno di 18 anni. Ha ribadito che «molti dei bambini arrivano non accompagnati, separati e fortemente traumatizzati».
In uno di questi campi profughi, quello di Rhino, incontriamo Vittoria. Si chiama come il lago. Sono più di un milione i sud sudanesi scappati in Uganda dall’inizio della guerra, Vittoria è una di loro, ha 16 anni ed è madre di una splendida bambina, in attesa di un secondo nascituro. Suo marito è con lei, appena più grande ma entrambi molto giovani.
«Siamo scappati quando i militari sono arrivati al nostro villaggio, uccidendo e violentando». Spesso uccidono gli uomini per impadronirsi delle donne e violentarle. Sono riusciti a fuggire prima. Non hanno nessuno in Sud Sudan, entrambi orfani di entrambi i genitori, si sono trovati e sposati. Due settimane di fuga, questo il tempo che ci hanno messo a piedi per arrivare in Uganda, la figlia legata al petto, un sacchetto con due abiti e due pentole, le loro uniche ricchezze. È in una di queste pentole che Vittoria sta cuocendo un po’ di polenta mentre parliamo con lei.
Vorrebbe tornare in Sud Sudan, anche se non ha parenti. Quella terra è casa sua. Quando le chiediamo della guerra non sa rispondere, non ne conosce i motivi, non sa niente di quale sia la posta in gioco. Ha solo visto uccidere, ha visto la violenza, ha avuto paura per sé e per la glia. Ed è fuggita.
«Lei è fortunata», dice Angela Nuwahereza, operatrice di Oxfam che lavora in questi campi profughi. «Fortunata perché non ha subìto violenza e ha con sé il marito che le garantisce una maggiore tranquillità». Non ha niente ma è fortunata. Più di Mariam, 19 anni, anche lei con una figlia di due anni, ma senza marito, rimasto vittima della guerra. È scappata qui da sola e non ha neppure due pentole con sé, solo la sua bambina.
La maggior parte dei profughi sono donne con bambini. Tanti, tantissimi bambini.
Mira Faymoresh è tornata qui a Rhino per la terza volta meno di un anno fa. Ricorda la prima fuga quand’era una bambina nei primi anni ‘70 durante la prima guerra civile sudanese. Rientrata in Sudan con i sui genitori, ricorda molto bene anche la nuova fuga negli anni ‘90 durante la seconda guerra civile, sempre qui a Rhino Camp. Dei tre campi profughi che visitiamo, questo è quello “storico”: in questi cinquant’anni, periodicamente si è riempito e svuotato.
In Uganda la terra è degli ugandesi, sono loro quindi che l’hanno messa a disposizione, qui nel Nord del Paese, per accogliere i profughi che arrivano da Congo, Ruanda, Kenya, Somalia ma soprattutto dal vicinissimo Sud Sudan. Se si guardano le classiche sulla povertà, l’Uganda risulta fra i Paesi più poveri al mondo, ma se si guardano le classifiche degli Stati più ospitali, allora l’Uganda svetta: oltre 1 milione e 300 mila rifugiati complessivi.
A Imvepi Camp, se non fosse per i teli bianchi marchiati Unhcr potrebbero sembrare tutti ugandesi. Gli insediamenti non sono concertati ma diffusi in un ampio territorio, mescolati alla popolazione locale. In tanti fanno i mattoni, e si costruiscono capanne in muratura e paglia, segno di una prospettiva di permanenza, ma anche di integrazione: gli stili di vita degli ugandesi del Nord sono simili a quelli dei sud sudanesi che arrivano.
«I beneficiari dei nostri interventi sono per il 70 per cento i rifugiati e per il 30 per cento gli ugandesi che vivono qui, nei distretti di Arua e di Yumbe». Lo dice Esther Kabahuma, responsabile dei programmi di Oxfam nel distretto di Yumbe, dov’è sorto uno dei campi più recenti, quello di Bidi Bidi, per rispondere al crescente esodo dei sud sudanesi. Solo a Bidi Bidi sono già arrivati in 287 mila. «L’acqua è la sfida principale, specie adesso che c’è la stagione secca. L’Uganda è un Paese ricco d’acqua grazie ai grandi laghi e al Nilo, che però dista 70, 100 chilometri da queste zone». Questo comporta un via vai continuo di autocisterne con costi elevatissimi.
L’acqua è una delle priorità dei progetti di Oxfam, che grazie all’intervento di AGIRE (Agenzia Italiana Risposta alle Emergenze, cartello di nove Ong che operano insieme sulle crisi più gravi) sta costruendo impianti di raccolta, riserva e distribuzione con tecnologie avanzate e l’utilizzo del fotovoltaico.
A Bidi Bidi incontriamo Micheal Taban Amos, che viene dalla regione dell’Equatoria Centrale. Ha 13 figli, alcuni con lui, altri profughi in Congo. In Sud Sudan ha fatto per anni l’insegnante, poi, dopo l’indipendenza del 2011, è diventato funzionario del Governo a Juba. Ha uno sguardo carico di sofferenza ma determinato. «Prima, durante la guerra di liberazione, tutti erano uniti da un obiettivo comune: l’indipendenza da Khartoum. Ma con la nascita della nostra nazione i politici sono come regrediti. Il potere ha trasformato i nostri leader. Sembrano tutti impazziti. Sono scappato, non si può vivere in guerra».
Chiediamo a Michael se ha mai pensato di lasciare l’Africa, di venire in Europa. «Certo, qualche volta ci penso. Mi piacerebbe andare in Australia, con tutta la famiglia. Ma come faccio? Non ho neppure i soldi per mangiare. No, la mia principale preoccupazione è tornare a casa, nel mio Paese, a insegnare, cioè quello che ho sempre amato fare. Una cosa chiedo all’Europa: occupatevi di noi, occupatevi anche di noi. Non lasciateci soli».
Foto di Francesco Cavalli e Alessandro Rocca