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lunedì 14 ottobre 2024
 
 

Sud Sudan, ripartire da zero

10/04/2012  Dopo mezzo secolo di guerre e una fresca indipendenza, il Sud Sudan cerca di ripartire in una serie infinita di emergenze. La questione petrolifera e i contrasti con il Sudan del Nord.

«Riusciamo a rispondere alle necessità solo in termini di emergenza. La sfida è enorme. Si dovrà sostenere questo Paese per lungo tempo. Non basteranno tre anni e nemmeno dieci. Il Sud Sudan è indietro di 50 anni rispetto al resto dell’Africa. A causa del conflitto, della mancanza di investimenti, della scarsità di infrastrutture. Per ora non riusciamo a lavorare sullo sviluppo, a causa delle pesanti priorità delle tante emergenze umanitarie». A parlare è Yasmin Al Haque, responsabile dell’Unicef per tutto il Sud Sudan.

La situazione che descrive implica un lavoro immane. «La percentuale di vittime nell’ambito materno-infantile è fra le più alte del mondo», aggiunge. «Abbiamo numeri elevati di malaria, diarrea, malnutrizione. Per un bambino sud sudanese arrivare in salute ai cinque anni è già un’impresa. È chiaro che sono necessari interventi giganteschi per permettere all’infanzia di questo Paese di avere le doverose opportunità di crescita sana e armonica». La dirigente dell’Unicef indica le priorità: l’accesso all’acqua potabile, l’educazione di ogni ordine e grado, la costruzione di un adeguato sistema sanitario.

Ma prima di tutto la lotta alla malnutrizione infantile: «Le sue conseguenze», spiega, «sono tali che i bambini non crescono bene, né in termini di sviluppo fisico né di maturazione intellettuale». L’istruzione è uno dei problemi più urgenti. Fra i 6 e i 17 anni solo il 30% dei ragazzi sa leggere e scrivere. Molti hanno cominciato a studiare con grande ritardo, a causa della guerra e dell’estrema povertà, anche a 12 o 14 anni. «Solo il 12% dei minori arriva alla licenza della scuola primaria», aggiunge Yasmin, «meno del 10% delle bambine. E non abbiamo insegnanti: possiamo contare soltanto sul 13% dei docenti di cui c’è bisogno».

Le cifre e i dati snocciolati dalla responsabile dell’Unicef trovano un immediato riscontro non appena si va in giro per il Paese. Famiglia Cristiana l’ha fatto insieme a un team dell’agenzia dell’Onu dedicata all’infanzia. Siamo andati a vedere cosa si sta facendo nell’area fra Wau, Kuajok e Gogrial, una piccola porzione del Sud Sudan, nell’area centro settentrionale del Paese. Abbiamo visitato centri nutrizionali, ospedali, ma anche i nuovi quartieri abitati dai “ritornati”, le 350 mila persone emigrate al Nord e rientrate in patria con l’indipendenza. C’è fame, ci sono troppi bambini denutriti, e troppe famiglie che si ritrovano fra le mani il sogno di una nazione libera ma niente altro per ricostruire le proprie vite.

Nel corso del 2011, prima e dopo la proclamazione dell’indipendenza, hanno preso quello che hanno potuto e in lunghe carovane hanno passato la frontiera. Qui non hanno terra, casa, lavoro. Il governo ha assegnato delle aree, in diversi dei 10 distretti che formano la Repubblica del Sud Sudan. Ad esempio, la cittadina di Kuajok con l’insediamento dei “ritornati” ha raddoppiato i suoi abitanti. Mentre le agenzie umanitarie, le Ong e i missionari si occupano dei bisogni più elementari della popolazione locale, devono affrontare anche le altre emergenze: il sostegno a chi è tornato in patria, ma pure l’afflusso delle decine di migliaia di rifugiati scappati dalle zone dove oggi si combatte, appena oltre il confine, nelle regioni rimaste sotto il controllo di Khartoum, il Sud Kordofan e il Blue Nile.

La nostra spedizione ha percorso queste poche centinaia di chilometri alla fine della stagione secca. Fra qualche settimana comincerà quella delle piogge. Ora è il momento più difficile: la temperatura sale a 40-45 gradi, non c’è più acqua, i terreni sono riarsi e le mandrie (di cui il Paese è ricchissimo) sono state portate lontano, verso il Nilo e gli altri fiumi. Tra poche settimane, verrà l’acqua, tutto tornerà verde, ma arriveranno anche le calamità che la pioggia porta con sé: la malaria, le malattie infettive, le bronchiti dei più piccoli. Il neonato Paese africano oggi ha l’indipendenza tanto agognata. Ma nient’altro. È all’anno zero.

In tutta la nazione le strade asfaltate ammontano a poche decine di chilometri. Andare in ospedale è un’impresa e spesso si fa scuola sotto gli alberi. Non ci sono industrie, non c’è lavoro, la guerra si è divorata una generazione. È l’unico Paese africano dove non si trovano, lungo le strade principali dei villaggi, le bancarelle artigiane o le quattro assi con sopra una pila di uova e un po’ di frutta e verdura. L’Unicef, presente con circa 200 persone di staff, gestisce direttamente i progetti o sostiene in forma indiretta quelli delle Ong che operano nel Paese. Si tratta di decine di interventi in tutto il Sud Sudan. Una rete di solidarietà che di fatto fa supplenza quasi totale per tutto ciò che riguarda l’infanzia: dagli ospedali alle scuole, dalle vaccinazioni alla prevenzione del Hiv/Aids, dai punti-acqua agli ambulatori contro la malnutrizione, dai centri ricreativi e sportivi al monitoraggio delle madri in gravidanza e dei neonati.

«Garantire le necessità minime quotidiane alla popolazione è già un lavoro gigantesco», spiega Alessia Turco, responsabile del programma per gli aiuti umanitari dell’Unicef. «Il problema è che ogni giorno ci si presenta un’emergenza nuova». Ci mostra una mappa: sono 15, in questo momento, le aree critiche. La più grave, forse, è quella dei rifugiati che scappano dalla guerra oltre frontiera: 15 mila profughi nel campo di Yida, fuggiti dal Sud Kordofan; altri 80 mila nella regione Nord-orientale, in fuga dagli scontri nel Blue Nile. «Ma ci sono anche 200 mila sfollati coinvolti nelle battaglie interetniche della regione di Jonglei», sottolinea, «e, ancora, i 70 mila scappati dalla zona di confine col Centrafrica, dove si sono verificate le incursioni e i saccheggi dei ribelli appartenenti all’Lra, l’Esercito di liberazione del Signore guidato da Joseph Kony».

Ora incombe lo spettro di una nuova crisi umanitaria: il Governo di Khartoum ha deciso che tutti i sud sudanesi presenti ancora nel Nord dovranno tornare alla propria terra d’origine. Si tratta di 500-700 mila persone. Un nuovo esodo biblico. Un’altra emergenza a cui presto si dovrà far fronte. Tutto questo con fondi insufficienti. L’Unicef ha chiesto poco meno di 100 milioni di dollari, sia per il 2012 che per il 2013. Finora, i Paesi donatori hanno elargito solo il 25% delle risorse necessarie.

Anche per questo Unicef Italia ha intrapreso una campagna di raccolta fondi nel nostro Paese, nella speranza che le famiglie e i privati cittadini vogliano supplire alla risposta poco generosa dei governi dei Paesi ricchi (compreso il nostro). Chi vuole contribuire può fare una donazione all’Unicef (causale: “Lotta alla mortalità infantile in Sud Sudan”) nei seguenti modi:
- c/c postale n. 745000;
- bonifico bancario presso la Banca Popolare Etica (iban IT55 O050 1803 2000 0000 0505 010);
- oppure con carta di credito al numero verde 800 745000.
Per saperne di più si può andare al sito www.unicef.it.

La Repubblica del Sud Sudan è la più giovane nazione africana. È nata ufficialmente il 9 luglio 2011, quando è stata proclamata a Juba, la capitale, l’indipendenza dal Sudan. È il 54° Stato dell’Africa e il 193° delle Nazioni Unite. La secessione dal regime di Khartoum è stata conquistata col sangue: quasi mezzo secolo di guerre, delle quali l’ultima è durata ben 22 anni: dal 1983 al 2005. Il trattato di pace che ha chiuso il conflitto aveva anche fissato le tappe successive: un periodo di transizione di cinque anni, nei quali il Sud avrebbe goduto di ampia autonomia e il referendum per l’autodeterminazione, svoltosi il 9 gennaio 2011, nel quale il 98,83% dei votanti si è espresso a favore della secessione. Da qui la proclamazione dell’indipendenza del 9 luglio scorso.

Dopo mezzo secolo di guerre…

... il neonato Paese africano ha la libertà, ma poco altro. È ancora alle prese con le ferite profonde causate da decenni di guerra civile che hanno opposto il Nord arabo e musulmano e le regioni meridionali, abitate da etnie di ceppo africano e in prevalenza cristiane e animiste, non solo per ragioni religiose ed etniche, ma anche per l’iniqua distribuzione delle ricchezze nazionali e degli investimenti da parte dei governi di Khartoum. Il conflitto, aggravato da prolungate carestie, ha causato due milioni di morti e quattro di rifugiati e sfollati. Ma anche la distruzione quasi totale delle infrastrutture: scuole, strade, ponti, ospedali.  

Uno dei sistemi sanitari peggiori del mondo

Le conseguenze della guerra ancora oggi sono molto evidenti, specie negli indicatori sanitari, tra i peggiori del mondo: il 48% dei bambini sotto i cinque anni è malnutrito, solo uno su quattro è vaccinato contro il morbillo, soltanto il 5 per cento dei parti è seguito da staff specialistico. Il Paese, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità necessita di almeno un migliaio infermieri e paramedici. Quanto ai medici locali, oggi ce n’è una quarantina in tutto il Paese, dei quali la metà lavora in cliniche private. Ma anche guardando agli altri indicatori, i problemi sono tanti e gravi: il 70 per cento dei circa 8 milioni di sud sudanesi è analfabeta; non ci sono più di 50 chilometri di strade asfaltate in tutto il territorio dello Stato, e le infrastrutture mancano quasi del tutto (per fare un esempio, la metà degli alunni della scuola primaria fa lezione sotto gli alberi, per la mancanza di scuole).  

Un’emergenza dopo l’altra

Oltre alle enormi carenze dello stato sociale, in questi primi mesi di vita il Sud Sudan ha dovuto affrontare diverse crisi umanitarie. La prima, quella legata al rientro in massa di 350 mila sud sudanesi che durante la guerra erano emigrati nelle regioni del Nord e che sono rientrate in patria con l’indipendenza. Inoltre, sono scoppiati scontri etnici in diverse aree del Paese, la più grave delle quali ha provocato migliaia di morti nella regione del Jonglei, con decine di migliaia di sfollati. Altre emergenze umanitarie sono state provocate nel Sud-ovest, lungo il confine col Centrafrica a causa delle incursioni del gruppo ribelle del Lra (Esercito di resistenza del Signore); e ancora lungo il confine Nord, per via degli scontri (ancora in atto) fra l’esercito di Khartoum e i gruppi armati del Sud Kordofan e del Blue Nile, due regioni le cui popolazioni non hanno potuto votare per l’autodeterminazione, pur avendo combattuto con l’Spla (l’Esercito di liberazione del Sud Sudan) la guerra per l’indipendenza, e volendo in larga maggioranza far parte del nuovo Stato meridionale. Il conflitto in atto ha spinto alla fuga oltre centomila profughi oltre confine.  

La questione petrolifera 

L’85% delle riserve di greggio, con la scissione in due del grande Sudan, è rimasto nei territori del Sud. Il neonato Paese è in grado di estrarre oltre 400 mila barili di petrolio al giorno. Ma l’unico oleodotto realizzato prima del referendum e dell’indipendenza, attraversa il Nord per arrivare al mare a Port Sudan. Il contenzioso sul “diritto di passaggio”, per il quale Khartoum esige un prezzo salatissimo, ha portato il Governo del Sud a interrompere, nel gennaio scorso le estrazioni. Una situazione delicatissima, dato che le esportazioni di greggio costituiscono il 98% delle entrate dello Stato. C’è il progetto di realizzare due altri oleodotti, uno attraverso Etiopia e Gibuti e l’altro attraverso il Kenya, ma occorreranno due o tre anni per realizzarli.  

Rapporti tesi fra i due Sudan

Il petrolio non è l’unico problema fra i due Paesi, ma è la madre di tutti i problemi. Anche la demarcazione precisa del confine e la libertà di movimento delle popolazioni sono questioni irrisolte legate al nodo-petrolio. Come pure la definizione della regione di Abyei, proprio al centro fra i due Paesi: la grande maggioranza della popolazione vuole poter votare l’autodeterminazione, per passare col Sud Sudan, ma il Nord finora non ha consentito il voto (pure previsto dagli accordi di pace), anche perché perderebbe un’altra significativa quota petrolifera, dato che l’area è ricca di giacimenti. Ora si profila un altro grave problema, che potrebbe tradursi in un’ennesima emergenza umanitaria: Khartoum ha posto la data limite del 9 aprile per il rientro in patria di tutti i sud sudanesi che vivono ancora al Nord. Sarebbe, secondo le stime, un numero variabile fra 500 e 700 mila persone. L’ultimatum non potrà essere rispettato e si sta trattando per concedere più tempo per il ritorno in patria.

 
 
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