Francesco,
52 anni, si è tolto la vita il 6 gennaio, incastrando una camicia
nella cerniera della porta del bagno di Rebibbia, a Roma. Non è
stato il primo suicidio del 2014 nelle carceri italiane. Già nel
pomeriggio del 3 gennaio, nell’istituto penitenziario di Ivrea, si
era suicidato un uomo, anche lui italiano e di nome Francesco, più
giovane di dieci anni. Ha attorcigliato un sacchetto dell’immondizia
e lo ha fatto passare attraverso le sbarre del bagno interno alla
cella, creando così un cappio. Poi ha infilato la testa e si è
lasciato andare.
Queste
prime morti sono parte di una serie che, lo dicono le statistiche da
oltre un decennio, arriverà a una cifra oscillante tra le quaranta e
le sessanta o, magari, le settanta unità nei prossimi dodici mesi.
Nel 2013, i suicidi in carcere sono diminuiti, 42 rispetto ai 56
dell’anno precedente a detta del Ministero. Secondo il dossier
“Morire di carcere” di Ristretti Orizzonti, invece, sono stati 49
e 60.
Tra i casi non registrati o catalogati come «incidente»,
quello di Denis Ronzato, 25 anni, morto il 23 aprile scorso a
Castelfranco Emilia con una bomboletta del gas e un sacchetto.
«Doveva essere scarcerato e
ricoverato in una casa di cura, ma l’ordinanza del magistrato non
era stata ancora eseguita»,
spiega l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere. «Il
ricovero del giovane, firmato da giorni dal magistrato di
sorveglianza non è stato eseguito neppure quando, il 19 aprile, dopo
il colloquio con i familiari, aveva dato segni evidenti di malessere
psicofisico».
Tre giorni
prima, anche lui non conteggiato dal Ministero, era morto asfissiato
Rachid Ben Chalbi, nel carcere sardo di Macomer (Nu), dove aveva
inalato il gas dai piccoli fornelli da campeggio a disposizione dei
detenuti. Stava per essere sepolto senza alcuna comunicazione alla
famiglia, né il rito prescritto dalla religione musulmana, alla
quale Ben Chalbi apparteneva. L’impegno di alcuni attivisti per i
diritti umani ha poi reso possibile il trasporto della salma in
Tunisia.
Al
di là dei conteggi (a cui andrebbero aggiunti 90 suicidi tra gli
agenti penitenziari dal 2000 al 2013), nelle nostre carceri ci si
ammazza con una frequenza 17/20 volte superiore a quella che si
registra in Italia. Al contrario di quello che succede tra le persone
libere, tra le sbarre la percentuale di suicidi è assai più elevata
nei giovani tra i 24 e i 35 anni. Spesso si verifica nelle primi
tempi dopo l’ingresso in carcere, quando l’impatto con un mondo
di cui spesso si ignorano regole e linguaggi, codici e gerarchie, fa
precipitare in uno stato di smarrimento che può portare al gesto
estremo.
Ma
si può “morire di carcere” anche per malattie non curate o
situazioni inconciliabili con le condizioni di vita dietro le sbarre.
Rosaria Iardini dell’Anlaids è convinta che «almeno
il 70% delle persone sieropositive non ricevono cure corrette»,
mentre Francesco Ceraudo, presidente dell’Associazione dei medici
penitenziari, ha definito il carcere una «fabbrica
di handicap».
Nei
casi di questi decessi in cella non sempre c’è trasparenza da
parte del Ministero. Federico Perna, 34 anni, è morto a Poggioreale
(Napoli) l’8 novembre scorso, per «collasso
cardiocircolatorio».
Racconta la madre Nobila Scafuro: «L’ho
sentito al telefono l’ultima volta il martedì precedente, mi disse
che perdeva sangue dalla bocca quando tossiva. Si trovava nel
Padiglione Avellino, nella cella 6, assieme ad altre 11 persone.
Federico non doveva restare in carcere, ma essere ricoverato in
ospedale: aveva bisogno di un trapianto di fegato ed era stato
dichiarato incompatibile con la detenzione da due diversi rapporti
clinici, stilati dei Dirigenti Sanitari delle carceri di Viterbo e
Napoli Secondigliano».
Invece era stato trasferito a Poggioreale, dove le sue condizioni di
salute si erano ulteriormente aggravate: «Sputava
sangue, letteralmente, e chiedeva il ricovero disperatamente da
almeno dieci giorni lamentando dolori lancinanti allo stomaco.
Abbiamo appreso della sua morte tramite la lettera di un compagno di
cella, con il quale Federico aveva stretto amicizia. Non sappiamo
nemmeno dove sia morto, perché le versioni sono diverse».
Successivamente, la magistratura ha aperto un’inchiesta per
omicidio colposo. Infine,
due dati appena diffusi sul sovraffollamento, che spesso viene
giustamente indicato come una delle condizioni del malessere dietro
le sbarre. Al 31 dicembre, negli istituti penitenziari
italiani erano recluse 62.536 persone, a fronte delle 65.701 alla
stessa data del 2012.
Dal
2007 al 2013, i detenuti sono aumentati del 28% (14.000 persone): se
l’incremento tra gli stranieri è stato circa del 20%, quello degli
italiani è stato molto più elevato (+34%). Secondo i ricercatori
della Fondazione Moressa, «dall’inizio della crisi i detenuti
italiani sono aumentati con un ritmo molto più sostenuto rispetto a
quello degli stranieri».
«Si può ipotizzare che la crisi economica e
la conseguente crescita della disoccupazione, mentre nel caso degli
stranieri spinge maggiormente a cercare fortuna in altri Paesi, per i
nostri connazionali sfoci purtroppo spesso nell’illegalità. Resta
il fatto che generalmente i detenuti stranieri finiscono in carcere
per reati legati a condizioni di marginalità ed esclusione sociale,
come furti e spaccio di stupefacenti».