Il giornalista Paolo Rumiz, che nel suo libro "Appia" ha raccontato l'esperienza di aver percorso i 612 chilometri fra Roma e Brindisi.
Era la numero uno, la Regina viarum, la Regina delle strade, univa Roma a Brindisi, porto d’imbarco verso Oriente. Le sue pietre sono ancora lì, a testimoniarne l’ingegnoso impianto: più strati, il più profondo fatto di grossi ciottoli, poi uno di sabbia e di ghiaia e, in superficie, i basoli, pietre basaltiche di grosse dimensioni, ben levigate, poi diventate caratteristiche di tutte le strade romane. La costruzione della Via Appia iniziò nel 312 a.C, per volere di Appio Claudio Cieco (da lui prese il nome) e proseguì per oltre un secolo, il percorso fu infatti completato verso il 190 a.C.
Era una strada militare, certo, nata per far marciare rapidamente i legionari verso l’Italia meridionale, ma poi divenne ben presto una via fondamentale per il commercio e i viaggi. Brulicante di vita, riscoperta nel Settecento e Ottocento, quando la moda del Gran Tour portò in Italia i giovani intellettuali europei. Cercavano le rovine del passato, ritrovavano le stesse atmosfere ed emozioni descritte dal poeta Orazio, che a 28 anni, nel 38 a.C, fece tutto il tragitto per imbarcarsi a Brindisi alla volta di Atene e lo descrisse nelle sue Satire: «Uscito dalla grande Roma, m’accolse ad Ariccia una modesta locanda; m’era compagno il retore Eliodoro, senza confronti il piú dotto dei greci: di lí a Foro d’Appio, brulicante di barcaioli e di osti malandrini. Noi, sfaticati, dividemmo in due questa tappa, che per gente piú svelta è una sola; ma l’Appia è meno faticosa a chi la prende comoda».
Brindisi: quel che resta delle colonne romane davanti al porto, ala fine della Via Appia.
Faticosa, sì, la Via Appia non è un cammino semplice. Il primo tratto, il più vicino a Roma, è stato ristrutturato e attrezzato per accogliere i visitatori, ma poi man mano che si prosegue ci si scontra con la realtà: la strada quasi non esiste più, si perde nei campi di frumento, nelle periferie, è stata invasa dall’asfalto. Chi decide di percorrerla non fa un pellegrinaggio, non è una strada religiosa, è «una direttrice indiscutibile e solitaria, scolpita nella pietra, fatta di sangue e sudore, percorsa da legionari e camionisti, forzati e pecorai», scrive Paolo Rumiz. Il giornalista lo scorso anno l’ha attraversata tutta, a piedi, 612 chilometri in 29 giorni, e poi ha descritto l’avventura nel libro Appia (Feltrinelli, 360 pagine, 19 euro). Un viaggio tra la gente, la scoperta delle bellezze di località spesso dimenticate dai turisti. Come Benevento dove il maestoso arco di Traiano racconta il tempo in cui i Sanniti dialogavano alla pari con Roma.
Proprio da Benevento parte la seconda Via Appia, la Traiana, che arriva a Brindisi con un tragitto più breve e costiero. L’originale, invece, descritta da Rumiz, attraversa i monti dell’Irpinia e della Basilicata. E poi la Puglia, con Taranto, città ricca di storia, dove il Museo archeologico mostra meravigliosi gioielli in oro e argento, testimoni di una civiltà marittima raffinata. Infine Brindisi, da cui partivano le rotte commerciali per la Grecia e l’Oriente: le sue colonne romane sul porto segnano la fine della Via Appia.
Per info: www.viaappiaantica.com