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Alcune sentenze su casi di reati di genere stanno facendo discutere per la sostanza della decisione e per le parole adoperate. Quanto alla sostanza, per capire come sono andate le cose, bisognerebbe non fermarsi - come spesso accade nelle dichiarazioni in libertà - ai titoli che nella necessaria sintesi della stampa possono risultare anche in buonafede fuorvianti dovendo strizzare decine e decine di pagine in una riga da meno di un tweet. Troppi hanno commentato fidandosi di poche frasi estrapolate, magari infelici ma che non riassumono il succo della decisione.
Per capire le due sentenze dei due casi di “femmincidio” della Corte d’Appello di Bologna e del Gup di Genova bisogna partire dal fatto che sono comunque due sentenze da cui si esce con il massimo della pena previsto per l’omicidio volontario non aggravato o in cui aggravanti e attenuanti secondo il giudice arrivano a compensarsi: si parte infatti da 24 anni, massimo di pena, che arrivano a 16 per la riduzione automatica di un terzo, prevista nei casi in cui l’imputato scelga il rito abbreviato, sconto contro il quale il giudice non ha margine di manovra.
Si tratta dunque di sentenze nelle quali si riconosce all’imputato una piena colpevolezza, in entrambi i casi ribadita dai giudici nelle motivazioni esplicitamente, anche per questo appare fuorviante la parola “giustificazione”, contenuta in molti commenti estemporanei. Non è un caso che il Codice penale preveda sempre un massimo e un minimo di pena: per l’omicidio volontario si va dai 21 ai 24 anni, dando al giudice una forbice entro la quale, caso per caso, graduare la sanzione all’intensità della colpa comunque accertata. Questo accade anche perché la realtà ha spesso, nelle sue sfumature, maggiore fantasia di quanta se ne possa permettere una legge necessariamente generale e astratta. Nei due casi in questione i giudici considerano grave la colpa al punto da applicare il massimo.
Aggravanti e attenuanti, non a caso circostanze, - tema caldo di queste due sentenze - , poi, possono incidere alzando o abbassando per adattarsi al caso ed è chiaro che in quelli di cui sopra – simili ma diversi -, non si è alzato non riconoscendo la crudeltà o la premeditazione che spingono verso il grado più elevato della colpa, ma non si è neppure abbassato, restando fermi sul massimo della pena per l’omicidio volontario “normale”.
Tutto questo dovrebbe bastare almeno a chiarire che non stiamo tornando a giustificare delitti a causa d’onore. Ma dovrebbe anche servire a riflettere sul fatto che il far pendere sempre la bilancia a favore delle aggravanti, indipendentemente dalle circostanze reali, porterebbe a ingiustizie nella sostanza, perché da caso a caso, anche nell’assodata gravità in sé dell’omicidio, possono esserci differenze, che per rendere giustizia nel concreto vanno graduate.
Per esempio, una volta che si fosse stabilito a furor di popolo che per non “giustificare” un delittto di genere si devono contestare sempre le aggravanti, che si farebbbe quando ci si trovasse a giudicare uno che ha ucciso per futili motivi, ma anche premeditato a freddo e poi infierito magari su più persone, avendo già esaurito tutte le sanzioni del codice con quelli che abbiano ucciso senza aggiugere questo sovrappiù?
Una riflessione a margine invece meritano le parole. Premesso che la motivazione di una sentenza è un atto giuridico, di trasparenza e dunque di garanzia sia per la vittima, sia per l’imputato, perché consente a tutti di valutare la linearità (o non linearità) del percorso della decisione, non si può negare che quando si tratta di delitti di genere si entra in un ambito di particolare delicatezza, che risente pesantemente di questioni culturali. Se c’è accortezza nello scrivere, avendo cura del massimo della sobrietà, eliminando ogni considerazione che non sia indispensabile a dar conto della decisione processuale, anche una sentenza può sortire l’effetto secondario ma virtuoso di fare crescere la cultura dei diritti.
Chi le scrive, però, non sempre è abituato a considerare, nel bene e nel male, questo effetto collaterale. Giudici come Fabio Roja e Paola Di Nicola, che a questo tema hanno dedicato libri interi, ripetono da tempo che su questo fronte delle parole misurate – e forse è anche il caso delle sentenze citate e certo di quella sulla violenza della corte d’Appello di Ancona rinviata in appello dalla Cassazione - qualcosa si può (e magari si dovrebbe) migliorare. Anche perché, come ha ricordato il Procuratore Generale della Cassazione Riccardo Fuzio: «Le sentenze devono essere risolte ed espresse in termini tecnici e deve essere rispettata la dignità delle persone e la correttezza verso le parti del processo. Inserirvi giudizi morali o estetici potrebbe costituire illecito disciplinare».





