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mercoledì 23 aprile 2025
 
 
Credere

Suor Leonella Sgorbati. La suora infermiera più forte dell’odio

17/05/2018  Il 26 maggio sarà beatificata a Piacenza la missionaria della Consolata uccisa nel 2006 in Somalia. Aveva dedicato la vita a formare personale per gli ospedali in Africa. Consapevole dei rischi, era andata incontro al martirio affidandosi a Dio

«Il mio andare in Somalia è la risposta a una chiamata: tu Padre hai tanto amato la Somalia da donare il tuo figlio… E io dico con lui “questo è il mio corpo, questo è il mio sangue donato per la salvezza di tutti”». Suor Leonella Sgorbati scrive queste parole nel suo diario il 27 febbraio del 2006. Sette mesi dopo, il 17 settembre, a 65 anni, viene assassinata a Mogadiscio da due sicari che le sparano alle spalle, all’uscita dall’ospedale dove ha appena tenuto il suo corso per infermiere. Sette pallottole colpiscono lei e la guardia del corpo Mohamed Mahamud Osman, musulmano e papà di quattro figli, che muore nel tentativo di difenderla. Il prossimo 26 maggio verrà proclamata beata nella cattedrale di Piacenza, sua terra d’origine.

Suor Leonella, al secolo Rosa Sgorbati, era nata nel 1940 a Rezzanello di Gazzola (Piacenza). Missionaria della Consolata, nell’anno in cui è stata uccisa era fra le ultime quattro religiose presenti in Somalia, insieme a tre consorelle del suo istituto. Tutti gli altri missionari avevano dovuto abbandonare il Paese negli anni Novanta, a causa dell’affermazione di gruppi armati integralisti e dell’assenza di uno Stato, nel contesto di una guerra civile scoppiata nel 1986 e tuttora in corso. La lista degli italiani – consacrati e volontari laici – assassinati nel Paese del Corno D’Africa è lunga: l’ultimo vescovo residente a Mogadiscio, Salvatore Colombo, venne assassinato nel 1989; negli anni successivi sono state uccise le missionarie laiche Graziella Fumagalli (1995) e Annalena Tonelli (2003).

UNA VITA PER L’AMORE

In Rosa, il sogno di donare tutta la vita a Dio nasce a 16 anni: «In quel lontano giorno – aprile 1952 – leggendo la tua Parola, mi sono sentita abitata e tu mi hai tenuta in te, mio Signore, oppure sei rimasto tu in me. Mai più sola, ma abitata», scrive nei suoi diari. E continua: «Sarei andata suora… Avrei cercato di vivere per lui, avrei cercato di parlare agli altri del suo amore». Undici anni dopo entra nell’Istituto delle suore missionarie della Consolata con il nome di Leonella. Dopo gli studi in infermeria e ostetricia, nel 1970 riesce a realizzare il suo sogno e a partire missionaria per il Kenya, in cui resterà 36 anni, interrotti solo da tre rientri in Italia. Agli amici e familiari, che le chiedono perché non faccia ritorno più spesso risponde: «Un po’ per gli impegni, un po’ per scelta, ma vi assicuro che non sono selvatica… Solo che ormai sono un po’ africana». È una donna dalla mente brillante e dalla memoria di ferro, dal carattere solare ed allegro, sempre pronta a una battuta di spirito: «Il suo sorriso aperto e schietto, la generosità nel servire, l’allegria e l’affabilità che faceva stare bene coloro che le erano vicino», si legge nella biografia redatta dalle sue consorelle.

In Kenya si prende a cuore la formazione delle infermiere e ostetriche locali, che la amano: «In scuola a Nkubu eravamo tante, ma ciascuna di noi si sentiva privilegiata per avere un rapporto particolare, molto personale con lei», racconta la consorella kenyana suor Joan Agnes Njambi Matimu. Negli anni successivi, diventa caposala di pediatria al Nazareth Hospital vicino Nairobi e consegue un diploma universitario per dirigere la scuola per infermieri. Nel ’93 è superiora delle missionarie della Consolata in Kenya. Per la sua competenza è chiamata a far parte del Consiglio nazionale degli infermieri, a Nairobi, e partecipa al progetto del ministero della Sanità del Kenya: Salute per tutti per il 2000, che ha l’obiettivo di creare nelle zone rurali, dove è concentrata l’80% della popolazione, centri sanitari autogestiti.

LA CHIAMATA IN SOMALIA

  

Nel 2000 riceve una proposta dalla Somalia, dov’è rimasto solo un piccolo gruppo di sue consorelle che lavoravano come volontarie nell’Ospedale Sos, Kinderdorf International, l’unica struttura sanitaria a Mogadiscio a offrire cure gratuite in ambito pediatrico. C’è bisogno di una scuola per infermieri e infermiere, che suor Leonella riesce ad aprire nel 2002. Nel 2006, l’anno della sua morte, si diplomano le prime 34 infermiere. Per solennizzare la celebrazione suor Leonella fa indossare agli studenti  la “toga”. L’avvenimento, mai avvenuto prima in Somalia, viene trasmesso dalla tv locale, e anche in Kenya. Qualcuno però comincia a dire che la suora sta facendo di tutti questi giovani dei cristiani. I più radicali, vedendo i ragazzi con le toghe, dicono che li ha già vestiti da “padri”. Non è chiaro se siano state queste voci il movente del suo assassinio. C’è da dire che nel 2006 la Somalia è pervasa da fortissime tensioni. Dopo il 12 settembre, giorno del discorso di papa Benedetto XVI a Ratisbona, scoppiano proteste in tutto il mondo islamico alimentate dai gruppi più radicali. «Una mattina suor Leonella, che si alzava molto presto per pregare, disse sconvolta alle sorelle che si doveva pregare e offrire molto per il Papa e per la Chiesa perché aveva sentito dalla radio che il mondo musulmano era in grande agitazione a causa di un discorso del Papa a Ratisbona», raccontano le sue consorelle.

Il 17 settembre è domenica, suor Leonella ha terminato la lezione alla scuola infermieri dell’ospedale e sta rientrando al Villaggio Sos dove abita, situato dall’altra parte della strada, quando viene colpita a morte. La sua guardia del corpo muore, lei viene portata ancora viva in ospedale, dove tanti somali si offrono per le trasfusioni di sangue. Una consorella, Marzia Ferra, racconta così i suoi ultimi istanti: «Era ancora viva, sudava freddo, ci siamo prese per mano, ci siamo guardate e prima di spegnersi come una candelina, per tre volte mi ha detto: “Perdono, perdono, perdono”». Una parola, ripetuta tre volte, che nasce molto prima.

IL MARTIRIO COME DONO

Nel febbraio del 2006 suor Leonella si era concessa un tempo prolungato e intenso di preghiera, a Castelnuovo Don Bosco, paese natale del beato Giuseppe Allamano, fondatore del suo istituto. Aveva letto Più forti dell’odio, il libro che raccoglie le testimonianze dei sei Trappisti del monastero di Tibihrine, in Algeria, uccisi nel 1996 (e che saranno presto beatificati anch’essi a Orano, in Algeria). Sui suoi diari aveva scritto: «Mi ritorna tra le mani la frase di Più forti dell’odio “il martirio non può essere visto come una impresa eroica, come un gesto di persone valorose, ma come il naturale evolversi di una vita donata”». Prosegue, citando una frase di Christian de Chergé, priore della comunità di Tibhirine: «Ho solo questo momento presente per testimoniare il valore della missione: “Potrò immergere il mio sguardo nello sguardo del Padre per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria del Cristo”».

Dalle sue meditazioni emerge una forte adesione al mistero eucaristico e la volontà di consegnarsi, sull’esempio di Maria: «Contemplo Maria come la donna della totale appartenenza, è un dono senza ritorno, l’appartenenza viene prima della possibilità di poter disporre! Lui può, noi abbiamo detto che apparteniamo a Dio ma è vero? È vero quello che io ho detto? Lui può disporre? Maria è la donna che appartiene totalmente a Dio, lui può disporre. Quando io dico che io e lui nell’Eucaristia “saldati” siamo una cosa sola, allora io non mi appartengo più, è una consegna totale, allora lui può disporre di me per l’avvento del Regno».

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