«Da loro ho imparato il coraggio: sono donne capaci di fare scelte che pagheranno in prima persona. Noi operatori dei centri antiviolenza possiamo stare loro accanto nella maniera più delicata ed efficace possibile, ma poi sono loro quelle che affrontano la fatica di ricominciare da capo». Da quasi trent’anni suor Michela Marchetti, 53 anni, dell’ordine della Divina volontà, si spende per le donne. «Le mie consorelle sono arrivate a Crotone, 50 anni fa. Alcune di loro erano infermiere e, entrando nelle case, intuirono che c’era bisogno di sostegno alle famiglie. Quando sono arrivata in Calabria dal Veneto, 29 anni fa, anche io ho cominciato a fare la stessa cosa». Dal 2009 suor Michela dirige il centro antiviolenza “Udite Agar” e attualmente coordina il Protocollo “Viola” di Crotone, stilato con la Prefettura per prevenire e contrastare la violenza contro le donne. Nel 2015 il presidente Sergio Mattarella le ha assegnato l’onorificenza al Merito della Repubblica Italiana.
Suor Michela, cosa serve oggi alle donne per uscire dalla violenza?
«La garanzia di un lavoro sarebbe fondamentale. Il non essere economicamente indipendente è un grande intralcio nel percorso di liberazione dalla violenza. Anche rimanere nella propria casa, senza doversi spostare in una casa protetta, sarebbe di grande aiuto. Viceversa si assiste a una doppia violazione: la violenza e la necessità di andarsene».
Negli anni in Italia sono nati numerosi centri di sostegno alle donne, cosa impedisce però un reale e fattivo accompagnamento?
«Chi opera in questo campo lo sa: per garantire alcune sicurezze servono risorse economiche stabili. A Crotone, ad esempio, il tasso di disoccupazione femminile è fra i più alti in Italia, come nel resto del Meridione. Come fa la donna a lasciare una famiglia violenta se non è autonoma e magari ha figli a carico? Chi ci chiede aiuto dopo anni di violenza ha poi bisogno di essere supportata a lungo dal punto di vista psicologico, fisico, sociale. Con poche risorse l’onere di risollevarsi ricade, ancora una volta, sulla vittima».
Da dove si parte per stare dalla parte delle donne?
«Serve un grande impegno in ambito educativo, a partire dalle scuole. Fra i ragazzini la violenza verbale è all’ordine del giorno: non ci rendiamo conto che stiamo crescendo generazioni inconsapevoli della violenza che provocano».
Cosa ricorda dei primi passi del suo impegno?
«Ricordo tante ragazzine dalle grandi potenzialità, che sprecavano le loro vite perché finita la scuola stavano chiuse in casa o, di fronte alla complessità dell’inserimento nel mondo del lavoro, si tiravano indietro ancor prima di cominciare. Si trattava di situazioni di povertà educativa, così abbiamo capito che occorreva sostenere i genitori. Dal centro famiglia è nato il centro antiviolenza e poi il centro per i bambini e quello contro la tratta. Abbiamo sempre cercato di non ghettizzare le persone né mettere marchi. Che gioia quando alcune di queste persone diventano adulti sereni».
Ai vostri centri e servizi avete dato il nome di alcuni personaggi biblici. Come mai?
«Effettivamente il centro di sostegno alle famiglie si chiama "Noemi" e quello per le donne maltrattate "Udite Agar". Noemi è una donna che ha vissuto l’esperienza della migrazione, dell’essere povera e poi accolta. Grazie a Ruth ha imparato che con la condivisione e facendo spazio all’altro si può tornare alla vita. Anche noi vogliamo essere presenze vicine per le donne, accompagnandole nel loro difficile cammino. Di Agar, invece, sappiamo che Dio ascoltò il suo grido. In verità sappiamo se lei davvero chiese aiuto... ma Dio la senti. Scandalizziamoci di fronte alle volgarità, siamo chiamati ad ascoltare le richieste di aiuto di tutte le donne che soffrono».