Facciamocene una ragione: la paura per il “venerdì 17” è un fenomeno molto, molto italiano. Nei Paesi anglosassoni è il venerdì 13 la giornata più infausta del calendario, tanto che negli Stati Uniti, in quell’occasione, c’è chi non esce neppure di casa, con un bel danno per il monte di ore lavorate.
In Giappone il numero peggiore è considerato il 4. In Spagna, Grecia e Sudamerica si guarda con timore e diffidenza ai martedì 13.
Si fa in fretta a parlare di superstizione popolare, che contagia colti e meno colti. Lo è, ma quante cose non ci inventiamo per fronteggiare l’angoscia dell’ignoto? Tanto è vero che alla paura del 17 viene dato un nome seriosissimo, “eptacaidecafobia”, e che enciclopedie e studiosi hanno spulciato la storia e la religione per rintracciare i fondamenti di un timore così diffuso.
Riassumiamo alcune di queste spiegazioni. Già nell’antica Grecia, i seguaci di Pitagora disprezzavano il 17 perché stava tra i “perfetti” 16 e 18 (che rappresentavano i quadrilateri 4x4 e 3x6). Nella Bibbia, la data del Diluvio Universale è il 17 del secondo mese. Nell’Antica Roma, sulle tombe si scriveva “VIXI”, “ho vissuto”, scritta che nel Medioevo analfabeta venne confusa con XVII, 17 in numeri romani.
Quanto al venerdì, per i popoli di tradizione cristiana è innanzi tutto il giorno della morte di Gesù.
Qualche consiglio in vista dell’imminente venerdì 17?
Opzione A: fare
come sempre, seguire i propri rituali scaramantici, o fregarsene se si è
sempre proceduto così.
Opzione B: inventarsi che da quest’anno è un
giorno di moda. Basta vedere cosa è successo negli ultimi anni al già
sfortunatissimo colore viola: da tinta proibita, è diventato un “must”
nel guardaroba di chiunque quando gli stilisti hanno deciso che non se
ne poteva fare a meno.
Opzione C: se si è molto, ma molto coraggiosi,
ripetere ciò che venne organizzato nel 2010 dal Cicap, il Comitato
italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale.
Di venerdì
17, alle 17,17, organizzò in una libreria di Genova una “Giornata
anti-superstizione”. Per partecipare, bastava indossare un vestito
viola, rompere uno specchio, versare il sale in terra con una mano e
aprire un ombrello in casa con l’altra, passare sotto una scala aperta
mentre un gatto nero attraversava la strada. Una coincidenza,
quest’ultima, che prevede però molta fortuna.
Rosanna Biffi
Paperino è fra i personaggi dei fumetti più amati in Italia, tanto da aver generato storie e “mondi” che intorno alla sua figura ruotano con fascino. Ma la vita psicologia di Paperino è assai complessa, tanto da aver permesso di dar vita ad una sindrome: la Donald Duck syndrome attiene all’idea che la vita di ognuno di noi non dipenda dalle potenzialità, o dall’impegno, o dalle possibilità che ad ognuno vengono date da un punto di vista familiare o sociale, piuttosto dalla fortuna o dalla sfortuna. Paperino, infatti, è convito che la causa dei suoi problemi sia soprattutto la sfortuna ampiamente contrapposta alla fortuna esagerata e smodata del cugino Gastone.
L’idea che la fortuna, il caso, siano alla base degli eventi della vita può essere considerata la ricaduta più evidente del pensiero magico. Un pensiero che accompagna il bambino nella sua infanzia ad affrontare le sue paure o le sue ansie con una sorta di capacità di controllare magicamente gli eventi. In età adulta il pensiero magico dovrebbe sempre più spesso essere contenuto e respinto come un meccanismo che ci allontana dalla realtà e dalle energie che ci possono permettere di affrontarla.
Quando ci convinciamo che la fortuna o la sfortuna o il controllo di entrambe possano condizionare la nostra vita si è all’interno di un processo di fuga dalla realtà e di dominio o sudditanza rispetto agli eventi.
Non a caso il pensiero magico accompagna forme di superstizione, forme di adesione a sette magico-mistiche che promettono il controllo degli eventi, ma anche patologie come il gioco d’azzardo. Il giocatore d’azzardo si convince di poter determinare il caso (ad esempio prevedere il numero ritardatario al gioco del Lotto) o di subirlo per fatti “magici” che non dipendono dalla sua volontà (ad esempio i numeri avuti in sogno).
Il pensiero magico determina anche errate valutazioni delle nostre
potenzialità o dei pericoli che corriamo. Un fenomeno studiato in
adolescenza e fra i giovanissimi è appunto quello dell’irrealistico
ottimismo: l’idea che, benché un comportamento sia a rischio, non debba
proprio io esserne vittima.
I momenti di crisi sono occasioni in cui il pensiero magico rischia di
amplificarsi. Un po’ come il bambino che lo utilizza per far fronte alle
sue paure evolutive, anche l’adulto cerca nel pensiero magico una via
di figa che allontana la frustrazione dai propri errori, il sentimento
di fallimento, l’angoscia per errate valutazioni: lo studente che spiega
la sua bocciatura con la sfortuna; il giocatore che attribuisce la
colpa della sua sfortuna a segni negativi; l’innamorata che lenisce il
dolore per esser stata lasciata definendosi come “sfortunata in amore”.
Più gli ostacoli che la vita ci mette davanti ci sembrano insormontabili
più alleggeriamo le nostre responsabilità con il pensiero magico, che è
resta un pensiero connesso all’impotenza/onnipotenza.
La società occidentale amplifica questo pensiero e, piuttosto che
accompagnare le giovanissime generazioni all’assunzione di
responsabilità, accentua la convinzione che il “colpo di fortuna” possa
produrre cambiamenti che altrimenti sono impensabili.
Paperino sogna di collaudare materassi, esser pagato insomma per
dormire, intanto passa la vita rubando dal salvadanaio dei nipoti o vive
alle spalle di zio Paperone (personaggi che a qualcuno possono sembrare
antipatici ma che i risparmi li hanno messi da parte con fatica) ed
intanto, in attesa del colpo di fortuna, vive una misantropia congenita
(da anni non sposa l’eterna fidanzata Paperina) e da qualche decennio
vive anche una inquietante doppia vita nata negli anni Settanta, quando
come Paperinik agisce dietro una maschera e spesso di notte quello che
di giorno non ha il coraggio di fare a viso aperto. Abbastanza per esser
certi che il pensiero magico finisca con l’esasperare quella stessa
crisi o difficoltà dalla quale si vuol fuggire.
Gioacchino Lavanco
(professore ordinario di Psicologia di comunità e presidente dei corsi
di laurea in Scienze dell’educazione presso l’Università di Palermo)
La parola superstizione indica la credenza irrazionale nell’influsso, positivo o negativo, di determinati eventi nelle vicende umane. Le forme sono le più diverse. Si attribuiscono significati strani ai numeri pari e dispari; i giorni del calendario sono divisi in fausti e infausti; la giornata (o l’anno nuovo) porta male se si incontra una determinata persona o se un gatto nero attraversa la strada.
Sono credulità innocue? Ci si crede davvero? Secondo sondaggi d’opinione milioni di italiani, anche tra i più istruiti, spendono somme ingenti di denaro e ricorrono a riti più o meno assurdi per conoscere qualche frammento del futuro, per scacciare il malocchio. Il fenomeno superstizione diventa ancora più serio se si considera l’espansione delle pratiche occulte, come sedute spiritiche, ricorso a maghi, fattucchieri e fattucchiere, mercanti di amuleti e di talismani.
La superstizione, alla sua radice, è manifestazione di sudditanza nei confronti di forze anonime e fiducia in potenze razionalmente indimostrabili; sudditanza che crea ansia e paura. Paradossalmente nell’éra della scienza e della tecnica, l’uomo e la donna praticano riti incredibili per sconfiggere la paura e per premunirsi da ipotetici mali o per mettere in campo quelli buoni.
Come si contrasta la superstizione nelle sue molteplici forme dalle più innocue o che come tali sembrano, a quelle più pericolose nelle quali si cede a cominciare da quelle più piccole?
La superstizione è irrazionale, la si contrasta, allora, con il ritornare ad usare la ragione che conduce a capire l’origine delle varie forme di superstizione; e ad evitare, oltre al danno economico e il rischio di uno sfruttamento in modo occultamente criminale, quello di creare condizioni psicologiche di dipendenza dalle quali difficilmente si esce.
La superstizione è fede alla rovescia (fideismo). La si contrasta allora
con il ritorno alla vera fede: l’adesione all’unico Dio e Signore della
storia personale e dell’umanità, libera da false credenze che creano
ossessioni e schiavitù. Molto chiaro, sintetico, e condivisibile, sul
piano della fede e della ragione, è il pensiero cristiano. «Tutte le
forme di divinazione (leggere il futuro) sono da respingere: ricorso a
Satana o ai demoni, evocazione dei morti o a pratiche che a torto si
ritiene che svelino l’avvenire. La consultazione degli oroscopi,
l’astrologia, la chiromanzia, l’interpretazione dei presagi e delle
sorti, i fenomeni di veggenza, il ricorso ai medium occultano una
volontà di dominio sul tempo, sulla storia ed infine sugli uomini e
insieme un desiderio di rendersi propizie le potenze nascoste»
(Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2116).
In breve, dalla schiavitù e dipendenza della superstizione ci si libera,
usando la ragione e, ancora più, ritornando alla fede in Dio e alla sua
Provvidenza. Se non si riconosce la Signoria liberatrice di Dio, c’è il
rischio di cadere sotto altre signorie che liberatrici certo non sono.
Luigi Lorenzetti, teologo moralista
Vincere, spesso, vuol dire vincere la paura di non essere all’altezza del qui e ora che gli appuntamenti dello sport impongono, a volte in modo inesorabile. Si pensi alla finale olimpica, ai rigori che decidono un Mondiale di calcio. Sono l’emblema dell’occasione di una vita, che viene una volta sola e poi sfuma. O l’afferri o fallisci, per sempre, il tuo momento della verità.
E allora esorcizzare in qualche modo la paura diventa il primo dei problemi, il che spiega piuttosto bene il dispiegamento di gesti volti a scacciare gli influssi maligni, la jella e tutti sinonimi più o meno triviali della sfortuna, cui assistiamo sui campi sportivi.
Non potendo allontanare la paura che la prova comporta ci si aggrappa dove si può.
Chi crede scende a patti con chi comanda in cielo: Maradona da Ct dell’Argentina ai Mondiali 2010 andava in panchina con il crocifisso, Evgeni Plushenko, stella polare del ghiaccio a Torino 2006, andò a ringraziare per il successo con un segno della croce ortodosso, proprio nel punto preciso della pista in cui aveva rischiato di cadere e rovinare tutto. Il campionario dei segni religiosi è lunghissimo. E chiama in causa una domanda da un milione di dollari: per chi tifa il Padreterno? E l’altra, ancora più impegnativa che sorge di conseguenza: chi marca, sui campi di gara dove al segno della croce dell’inizio può seguire l’imprecazione dopo il calcione rimediato, il confine tra fede e scaramanzia? A che punto della scala si colloca, per esempio, l’acqua santa di Trapattoni?
Se il campo semantico, per così dire, religioso è diffuso ma ristretto a pochi segni da tutti identificabili, quello dei rituali che potremmo chiamare pagani è pressoché infinito, soggettivissimo, il più delle volte riconoscibile nella reiterazione ma misterioso nei simboli. Un bailamme di riti, di gesti, di tic, nati il più delle volte, per caso, dalla coincidenza di averli compiuti per la prima volta in una circostanza rivelatasi poi fortunata e all’infinito ripetuti per ripropiziare la buonasorte, all’insegna del “chissà se è poi stato quello? Ma non si sa mai”.
Si pensi al bacio stampato da Blanc sulla pelata del portiere della Francia Barthez, cominciato al Mondiale 1998, vinto dai francesi, e terminato con il ritiro dal calcio giocato di Blanc.
Ma vale anche per il tormentone di Alberto Tomba al telefono con il padre dopo ogni vittoria: «Papà, pianta la pianta!», che nella sintesi non si sa quanto consapevolmente comica di Alberto era l’invito, rivolto al padre in diretta, a piantare un nuovo albero in giardino. L’aveva fatto papà Tomba di propria iniziativa dopo la prima inattesa vittoria in coppa di un giovanissimo Albertone ed è subito diventato un rito: «Papà, dai che facciamo un bosco».
Altre volte invece il rituale si ripete come un mantra mille volte in una partita, si pensi a Rafa Nadal
che prima di servire si toglie la terra dalle scarpe, si aggiusta, con
rispetto parlando, i boxer, i calzini e la fascetta sulla fronte, fa
rimbalzare la palla una decina di volte con la racchetta, e poi
finalmente, dopo averla fatta rimbalzare altre volte con la mano libera,
batte. In questo caso è probabile che la sequenza serva più ad
accendere l’interruttore della concentrazione che a chiedere alle stelle
l’ennesimo ace.
Ecco sì, forse quella degli sportivi è una scaramanzia al contrario, non cerca di allontanare il carico di malasorte – perché non si sceglie il giorno e l’ora e neanche il numero di partenza e un venerdì 17 ci può sempre scappare - ma di propiziare quella buona.
Avevano certamente questo fine i due numeri separati da un punto che la
Juventus di qualche anno fa usava scriversi sulle mani. A chi osava
chiedere spiegazioni rispondevano: «E’ un rito scaramantico, Ma non
possiamo spiegare il significato dei numeri altrimenti non funziona
più».
La buonasorte del resto, che si sappia, è l’unico aiutino che l'antidoping non indaga.
Arrigo Sacchi, allenatore di un Milan stellare, del resto, non ha mai
fatto mistero di ritenerla uno dei tre ingredienti indispensabili della
ricetta del pallone vincente: «Occhio, pazienza e b…». B…uonasorte.
Anche se per la verità lui la chiamava in un altro modo, un po’ meno
aulico.
Elisa Chiari
«Con l’età ho iniziato a vestirmi di nero e blu, colori chic in ogni occasione. In realtà, però, amo da sempre abiti e capi dalle tonalità accese. Le mie sfumature preferite sono quelle infinite dei viola». Chi parla del suo stile è l’attrice romana Claudia Gerini, 41 anni, arrivata al successo nel 1995 con il film di Verdone Viaggi di nozze e diventata volto simbolo del cinema italiano con la partecipazione al film di Mel Gibson The Passion e in Non ti muovere di Sergio Castellitto.
«Nel mondo del cinema, però, quando arrivo vestita di viola mi guardano malissimo», continua scherzando. «Anzi, sul set, è vietato. Se qualcuno mi rimprovera perché scelgo quel colore, autentico “tabù” sulla scena, allora mi difendo e dico: “Ma non è viola, è prugna (oppure glicine, lilla). Del resto, in Spagna, il colore vietato in teatro è il giallo», aggiunge sul tema della superstizione la Gerini. «Non conosco il motivo del giallo, ma per quanto concerne il viola è da sempre odiato dagli attori, perché è il colore dei drappi funebri. Un tempo, quando c’era un funerale, era lutto cittadino e non si andava a teatro. Del resto, noi diciamo “tocco ferro”, in tutte le altre lingue si dice “tocco legno”. Ognuno, davvero, ha le sue superstizioni. Altro che gatto nero. In Spagna, è un portafortuna!».
Giusi Galimberti