Passa dalla Polonia la nuova frontiera della delocalizzazione. E' nell'Europa di Maastricht, a due passi da casa, non nel lontano Far East, il destino possibile dei quattro impianti della Electrolux. Settecento posti di lavoro appesi al verbo: riallineare. Ovvero ribassare i salari, limare le differenze, uniformarli agli standard dei Paesi meno costosi. In Polonia il salario di un operaio è di 800 euro, da noi è 1.400. La conseguenza in apparenza è ineluttabile: l'azienda si sposterà dove potrà dare salari più bassi. Succede da sempre, si dice in tal casi, è legge di mercato.
Bisogna però guardare dentro la busta paga per capire se davvero è già scritta tutta la storia. Dentro quegli 800 euro c'è infatti solo una parte della verità. L'altra la racconta l'Ocse, l'organizzazione che raggruppa i Paesi più industrializzati del mondo nel rapporto datato 2012 (su dati 2011). In Italia, posta uguale a 100 euro la retribuzione lorda, queIla netta raggiunge il valore di 69,2. Dove finiscono gli altri (quasi) 31 euro? Tasse e contributi previdenziali. Se si sommano anche le tasse e i contributi che versa l'azienda, si arriva quasi a un altro stipendio: fatto 100 la retribuzione lorda, il costo del lavoro è infatti pari a 132 euro, quasi il doppio dei 69 che l'operaio si ritrova fine mese.
L'Ocse ci dice che siamo il sesto Paese al mondo per "costo del lavoro". E la Polonia? I numeri dicono che su 100 euro lordi di salario, ci sono più soldi al lavoratore (75) e minori costi per tasse e previdenza (114). L'azienda paga di meno in assoluto. Ma è anche vero che a finire nel portafogli delle famiglie è una quota percentuale maggiore. Perché il lavoro è un bene che il suo Governo reputa essenziale.
Dunque la storia ha due pezzi di verità. La prima è manifesta, si chiama ribasso dei costi: le imprese si muovono come stormi migratori, vanno a cercare l'acqua (i fattori produttivi) laddove li pagano meno. Ma non c'è argomento se non quello economico per indurle a fare diversamente. Occorre garantire che possano pagare meno tasse e meno contributi. Magari stringendo con loro un patto - ed è questa la seconda parte della verità - affinché una parte dei soldi risparmiati arrivi anche nella busta paga dei lavoratori. E tutto non si risolva nell'alternativa secca, quasi una tenaglia, tra il taglio polacco e il nulla.
Una volta tutto questo si chiamava politica industriale. Ma nel tempo se ne sono perse le tracce, e oggi la stessa locuzione sembra arrivare da un'altra epoca. Eppure senza un'azione di politica industriale che tagli il costo del lavoro e renda meno gravoso il taglio in busta paga per il lavoratore la vicenda Electrolux è destinata a ripetersi. E non serve stracciarsi le vesti imprecando al mercato. Servirebbe governarlo.