Munira e Brendon in una scena di "Tajabone".
Storia vecchia. Davide contro Golia.
Eppure quando si materializza nel
mondo del cinema, dove contano i
soldi (un’impresa trovare i finanziamenti
per girare un film) e i grossi nomi (notorietà
di regista e cast sono passaporti pressoché
ineludibili), ecco che il mito della sfida
impossibile assume il sapore di riscatto della
verità. Perché come ama dire il vecchio Ettore
Bernabei, papà della Lux Vide e boss della
Rai dei tempi d’oro, niente può essere più vicino
al vero di una bella fiction.
Proprio nell’ottica di offrire alla 67ª Mostra
del cinema di Venezia uno sguardo alternativo
sulla realtà, lontano dai lustrini
di Cinecittà o di Hollywood, il direttore Marco
Müller ha invitato una ventina di autori a
portare i loro lavori nella sezione Controcampo
italiano. In concorso strutture di livello
(Rai Cinema, Cinecittà Luce, la Kaos dei fratelli
Taviani) e nomi di spicco (la regista Roberta
Torre, la giornalista Rai Monica Maggioni)
ma anche molte piccole produzioni. Nessuna
però come la Viacolvento del sardo Salvatore
Mereu: il suo Tajabone, girato in digitale
e interpretato da un gruppo di tredicenni
di varie etnie pescati nelle scuole più disagiate
di Cagliari, è costato solo 10 mila euro.
«Confesso che ho inviato alla commissione
selezionatrice il Dvd del film con lo stesso spirito
con cui si stacca un biglietto della lotteria
», sorride Mereu, 45 anni, regista ma pure
insegnante a tempo pieno. «La notizia dell’invito
ha sbalordito sia me sia i ragazzi».
– Qual è stata la genesi di questa sorta di piccolo
miracolo cinematografico?
«Alle medie tengo corsi di educazione all’immagine.
L’idea era quella di far realizzare
un paio di corti ai ragazzi delle scuole di
due quartieri non facili di Cagliari: la Don Milani
di Sant’Elia e la Alagon di San Michele.
L’obiettivo era quello di insegnare cinema ai
ragazzi affinché poi si raccontassero attraverso
il cinema. Dopo l’iniziale diffidenza, sono
venute fuori storie così belle sul loro vissuto,
sulle loro adolescenze, che l’occhio da regista
mi ha suggerito di farne un film. Io li ho
solo aiutati e ho assemblato il tutto».
– Tajabone è la prova che il cinema è sogno?
«Non credo ci sia mai stato a Venezia un
film con un budget più basso: farne una copia
su pellicola coi sottotitoli, come richiede
il regolamento della Mostra, ci è costato più
che tre settimane di riprese. Ma siamo felici
di aver portato al Lido un film originale, che
testimonia la possibilità di trovare la bellezza
anche in mezzo a difficoltà e diversità».
Fil-rouge del racconto un treno in corsa, la
melodia da una terra lontana, una classe in
gita scolastica. Volti, pelli, storie diverse. Cinque
modi differenti di vivere l’adolescenza:
amori, amicizie, gelosie, rapporti problematici
tra genitori e figli. Munira e Brendon, giovani
Rom, provano le prime palpitazioni però
sono contrastati dal padre di lei. Andreà
sta con Antonio, ma deve affrontare il bullismo
di compagne invidiose. Per non parlare
di quello che subisce Noemi, ragazza grassottella
che s’inventa un’identità glamour su Facebook
per agganciare il belloccio della scuola,
salvo poi raggelare al momento d’incontrarlo.
Poi c’è Kadim, ragazzo senegalese taciturno
alle prese col papà assente e urare per aiutarla economicamente.
– Mereu, cosa significa il titolo?
«Tajabone è il canto tradizionalesenegalese intonato dalla mammadi Kadim alla notizia che il figlio hatrovato lavoro. Tajabone è la festamusulmana di buon auspicio chechiude il Ramadan: giorno in cui gli angeliscendono in Terra per sapere come vanno lecose agli uomini emagari dar loro una mano».
– Non è la prima volta che lei viene alla Mostra. Con quale spirito ha affrontato la gara?
«Per me è stata già una vittoria mostrare il film a giornalisti e critici di tutto il mondo. E poi essere riuscito a portare a Venezia tutti i ragazzi che lo hanno scritto e interpretato: Munira, Brendon, Abdullah, Angelica, Tamara, Nicola, Oscar, Sara, Noemi, Riccardo. Abbiamo fatto una colletta per trovare i soldi. Ci tengo a ringraziare i presidi delle due scuole, l’assessorato agli Affari sociali di Cagliarie l’Istituto superiore regionale etnografico della Sardegna: sono la prova che sul territorio le istituzioni sanno funzionare ancora».
– Lasciando il Lido, che cosa porta con sé?
«La fierezza di aver lavorato con ragazziche avevano mille ragioni per tener chiusi iloro cuori e invece hanno mostrato coraggio.Il cinema non amo solo farlo ma anche guardarlo:trovarmi a fianco di Tarantino, Salvatores,Dustin Hoffman, la Deneuve mi ha fattovenir voglia di chiedere autografi».