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venerdì 25 aprile 2025
 
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1992, la grande illusione di un'Italia migliore

23/03/2015  Abbiamo visto in anteprima la serie che da domani sarà trasmessa da Sky per poi approdare su La7 e che è già stata venduta all'estero. Una ricostruzione avvincente della stagione di Mani Pulite che intreccia le vicende giudiziarie al ritratto sociale di un'epoca che non si è mai conclusa.

Avvincente. Girata con il ritmo e lo stile visivo di un film (non per nulla il regista Giuseppe Gagliardi si è già segnalato per il suggestivo Tatanka, tratto da un racconto di Roberto Saviano). Con un cast costruito attorno a pochi attori famosi (su tutti Stefano Accorsi, ideatore del progetto) e a tanti interpreti di bravura cristallina. Con storie e personaggi che, oscillando tra la pura finzione e riferimenti reali a tutti noti, riescono a catturare lo spettatore quasi non sapesse come poi la vicenda sarebbe andata a finire. E' 1992, l'attesissima nuova serie Tv in dieci puntate, in onda da domani sera su Sky Atlantic e in futuro in chiaro su La7 (che figura infatti tra i coproddutori).

Più di una semplice ricostruzione cronachistica. La rievocazione di atmosfere, mode, disvalori, costumi sociali, aspirazioni che, finiti gli anni Ottanta (quelli della cosidetta “Milano da bere”), portarono al crollo, rovinoso, della Prima Repubblica. Per capire davvero non sarebbero bastate però le figure di Mario Chiesa, Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, del procuratore capo Borrelli e poi, via via, dei tanti corrotti e corruttori fino ad arrivare ai big della politica. Limitarsi al resoconto di quanto contenuto nelle carte processuali. Occorreva dare spessore umano, carne e sangue, volti e storie al nostro modo di vivere di allora. A Milano come a Roma, dovunque ci fossero intrecci tra affarismo e politica. Ed è questo l'aspetto vincente della serie. Gli sceneggiatori Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo  hanno saputo legare la cronaca ufficiale con le vicende private di personaggi minori, certo inventati ma capaci di riassumere i tratti morali, prima ancora che somatici, di coloro che vissero quel periodo attorno ai nomi famosi coinvolti nell'inchiesta.  

File rouge dei dieci capitoli è Leonardo Notte (Stefano Accorsi), pubblicitario geniale che a un certo punto viene incaricato da Marcello Dell'Utri di studiare gli stravolgimenti politici in atto per vedere come salvare questa Repubblica delle Banane, nel senso di continuare a fare affari malgrado una classe dirigente allo sbando. Sarà lui ad applicare sondaggi e criteri di marketing, fino a persuadere Berlusconi alla discesa in campo. Peccato che Notte, uomo così apparentemente di successo, si porti dietro una figlia che non ha mai veramente voluto e un passato tragico seppellito negli anni di piombo. Altra figura collante è quella di Veronica Castello (la sempre più brava Miriam Leone), soubrette tanto bella quanto psicologicamente fragile. Al punto da usare il corpo come merce di scambio col potente affarista Mainaghi, pur di conquistare la conduzione di uno show come Domenica In. Peccato che Mainaghi venga trascinato in rovina da Mario Chiesa, a sua volta buttato a mare dalla moglie tradita, che non vuole che lui se la cavi con poco per poi godersi il tesoretto con l'altra. Quella della showgirl è forse la figura più amara. Ci sono poi i giovani poliziotti Rocco (Alessandro Roja) e Luca (Domenico Diele), stretti collaboratori di Di Pietro, entrambi convinti di dover andare a fondo nell'inchiesta ma per motivazioni recondite, opposte, forse inconfessabili. C'è Bibi (Tea Falco), la figlia viziata e drogata, vagamente punk, dell'industriale Mainaghi. Una così infelice da essere capace di tutto pur di ferire la sua famiglia di cartapesta.

Non poteva mancare, infine, il nuovo populismo aggressivo della Lega Nord di Bossi: a rimanerne avviluppato è Pietro Bosco (convincente Guido Caprino), reduce dalla Guerra del Golfo e rugbysta di serie B, deciso però a trovarsi un posto in serie A. Il tutto rischia di dare l'idea di un gran guazzabuglio, ma non è così. Le sei storie comuni s'intrecciano abilmente con quelle dei nomi famosi et voilà , come dice Accorsi nello spot di una nota vettura francese: Tangentopoli è servita! Meglio, molto meglio del classico c'era una volta Tangentopoli. Perché, adesso forse non c'è più? La risposta rimbalza praticamente ogni giorno sulle prime pagine dei giornali. Eppure, c'è stato un momento in cui una bella fetta del Paese, la sterminata categoria delle brave persone, la gente onesta che lavora e paga tante, troppe tasse, per coprire l'evasione di furbi e di potenti, ha davvero sperato che qualcosa potesse cambiare. Un anno nel quale, grazie a un gruppo di magistrati di Milano agguerriti e inflessibili presto soprannominato pool di “mani pulite”, venne a galla il sistema di finanziamenti illegali e tangenti con cui i partiti placavano la fame di denaro mandando a rotoli il Paese. E' proprio questa stagione che racconta 1992, a metà tra fiction e documento storico, emotività e memoria condivisa.


Parafrasando un celebre film di Renoir, La grande illusione dell'Italia repubblicana. Un anno di indagini dirompenti, clamorose, culminato con la caduta della Prima Repubblica, con l'affossamento dei partiti compromessi (i liberali, i socialisti di Craxi, i democristiani di Forlani, i repubblicani di Spadolini), senza però che l'Italia riuscisse davvero a darsi una ripulita. Sono seguiti il ventennio di Berlusconi, la Lega Nord di Bossi e Maroni, i contorcimenti dei vari leader Pd, il Movimento 5 Stelle di Grillo, l'avvento di Renzi. Ma siamo ancora lì, ben lungi dal venire fuori dal sistema del malaffare che inquina e frena il Paese, come dimostrano le recenti inchieste attorno all'Expo e al Ministero delle Infrastrutture. Sola differenza è che una volta i politici rubavano soprattutto per il partito, per oliarne le complesse strutture, mentre oggi rubano per sé. Bella consolazione.
Emozione e riflessione. E' ciò che suscita 1992 nello spettatore, al quale viene richiesta assoluta maturità di giudizio. Perché non mancano scene forti di sesso, la droga, le abiezioni legate alla corruzione e al ricatto. Un campionario di nefandezze su cui, però, la cinepresa di Giuseppe Gagliardi non indugia più del necessario per far capire come sia la vita reale. Almeno, certa vita reale. Negli occhi ci rimane la scena in cui biglietti da centomila lire galleggiano nella tazza del gabinetto, gettati da un inquisito. Nelle orecchie, una battuta del pubblicitario Notte: “Sa cosa si dice nell'ambiente della Tv? Che lo spettatore è come un ragazzino di terza media, non troppo dotato e seduto all'ultimo banco”. Poi tutto un rutilare di locali, house-music, macchine di lusso, solitudini vestite con abiti griffati. E i tantissimi giornalisti stranieri presenti a Roma all'anteprima di 1992. La serie, prima volta per una produzione italiana, era stata già invitata ad aprire il Festival di Berlino. Tanti gli applausi, i consensi. La Frankfurter Allgemeine aveva scritto: “Raramente un Paese ha avuto il coraggio di guardarsi allo specchio come in questo caso”. E i tedeschi, con noi, non sono mai troppo inclini ai complimenti. 

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