San Sebastiano, il martire ucciso due volte, il corpo trafitto dalle frecce ma lo sguardo in un sereno colloquio con il Cielo, sembra incarnare il complesso rapporto di Tea Ranno con la fede. «Per me rimane l’eroe di cui mi hanno fatto innamorare i racconti di mia nonna, che ha nutrito l’idea di forza e di santità nella mia infanzia, e di cui ancora oggi mi soffermo a scrutare immagini e dipinti», ci racconta la scrittrice siracusana, residente ormai da molti anni a Roma. «A Melilli, il mio paese, ho fatto la scuola materna dalle suore Salesiane, ho frequentato i gruppi parrocchiali, poi con un gruppo missionario, l’Azione cattolica, preparavamo le liturgie, facevamo le prove di canto, scrivevo canzoni e copioni che poi mettevamo in scena. Era una vita di grande partecipazione. Poi mi sono sposata e sono partita. Nella basilica di San Sebastiano a Melilli ritrovo l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza, il fervore di chi progettava mille cose». Il dono della scrittura Tea Ranno lo ha sempre coltivato con dedizione e costanza. «Semmai dopo la morte ci sarà qualcosa, nessuno dovrà venirmi a dire che ho sotterrato il mio talento», sottolinea non senza giusto orgoglio. «Perseguo la scrittura da quando ero bambina ed è stato coltivato a lungo».
UNA FEDE FERITA
Nel 1990 un’amica fa pervenire un suo racconto a una casa editrice, che la contatta e le permette di lavorare mentre prosegue gli studi di notariato e decidere definitivamente di consacrarsi alla scrittura. La strada è lunga ma lei non demorde e continua a scrivere per altri quindici anni, fino a quando il suo romanzo Cenere giunge tra i finalisti del Premio Calvino (2005), aprendole la strada per la pubblicazione. Cenere segna però anche una grande frattura con la «celeste santità» dell’infanzia. Il romanzo, ambientato nel Seicento, ricostruisce fedelmente un processo per stregoneria e porta l’autrice a documentarsi su un’epoca nella quale le istituzioni sociali ed ecclesiastiche hanno permesso autentiche atrocità. I volti delle accusate non sono soffusi di quella pace ultraterrena che allevia i cruenti affreschi dei martiri: le tenaglie strappano il seno a sant’Agata e santa Lucia offre i propri occhi cavati su un piattino, ma le due donne non sembrano soffrire. Per le accusate di stregoneria non c’è neppure il sollievo dell’aldilà, ma solo lo strazio senza scampo dei loro corpi torturati. Quando parla della frattura con la fede della sua fanciullezza, la voce di Tea Ranno s’incrina, ancora ferita dalla disillusione. «Tutto questo si è scontrato con l’ardore e l’entusiasmo che avevo elaborato. Sono sempre stata una bambina innamorata di Cristo, una ragazza e un’adolescente infervorata alla quale suor Maria del nostro gruppo missionario diceva “Non lo so cosa vuole Dio da te”. Tutto quello che era basato sulle sensazioni e sugli ideali è franato. Ora c’è un discorrere diverso, adulto e ragionato, sfrondato dall’emotività».
L'AMURUSANZA
È possibile giungere a una conciliazione tra un cristianesimo favolistico e il brutale cinismo verso il quale si viene sospinti dagli scandali, anche recenti? Tea Ranno ha trovato la sua personale risposta nell’amurusanza, una parola che potremmo tradurre con “amorevolezza”, se non risultasse troppo astratto. «L’amurusanza, che non è un neologismo, ma un termine che ho appreso da mia zia e poi ho incontrato in altre regioni d’Italia, è la pratica molto comune di dare forma al bene attraverso tanti piccoli ma concreti atti d’amore: un regalo, una telefonata, un cibo portato a chi sta male... L’amurusanza sono le “piccolezze d’amore” che danno forma al bene, un bene non detto ma praticato, che restituisce senso alle parole perché le lega ai fatti. Le pagine dei miei romanzi sono intrise di questi gesti». A partire proprio da L’amurusanza (2019), fino a Terramarina (2020) e Gioia mia (2022), Tea Ranno ha raccontato reti di affetto nel senso più forte del termine, senza vuoti sentimentalismi, capaci al contrario di farsi prima ideale etico e poi atto politico. «Perseguo nella volontà di voler cambiare il mondo a colpi di poesia, di cultura, ma soprattutto a colpi di unione e di compartecipazione», ci spiega. «Chi vuole può trovarvi anche un aspetto spirituale, un’etica del tendere al bene e all’amore. Dei miei anni di bambina mi è rimasta chiara l’idea di Dio-Amore. Credo in un Dio-Amore che ci aspetta attraverso questo tempo che ci troviamo a vivere, che spesso non comprendiamo e che non trova risposte ai nostri “perché?” nei momenti di prova e di dolore. Se penso a quanto è piccolo il tempo a disposizione di ciascuno, e che quello che rimarrà di noi confluirà in un grande Bene, in un enorme Amore... allora trovo il senso. Parlo di amurusanza ed è quello in cui credo e spero, quello che desidero e a cui tendo».
UNA VOCE VIVA NEI RACCONTI
I romanzi di Tea Ranno sono storie di sorellanza forte, capaci di rovesciare legami sociali corrotti, di includere chi è abbandonato, di sostenersi vicendevolmente e far rifiorire la terra. «I miei sono ideali di libertà e di emancipazione, di tutela delle donne, di una vera battaglia in favore delle donne violate. Il mio è l’ideale di un femminile forte, che si unisce non per escludere gli uomini, ma per inglobarli in una realtà di armonia dove – se ognuno fa qualcosa per l’altro – tutti viviamo meglio». Un femminile che l’autrice ha conosciuto dentro casa, grazie alla tradizione delle cuntatrici, maestre dell’oralità che raccontavano le storie attorno al focolare, ognuna con il proprio stile. Oggi quest’arte dello stare insieme sembra essere smarrita, perché è difficile perfino ritrovarsi sullo stesso divano per guardare un film insieme. «Ognuno si ritira nella sua stanza con lo smartphone, come monadi che parlano lingue loro e seguono storie loro. Con la mia scrittura cerco di mettere i cunti su carta senza mummificarli, mantenendo la voce viva, e talvolta mi giungono messaggi come “Mi hai aiutato a elaborare un lutto”, “Mi hai fatto ridere in un tempo senza respiro”, “Sono dieci anni che mi parli attraverso i tuoi libri”, “Mi hai aiutato ad affrontare il tunnel del cancro”... e questo restituisce senso a quello che faccio».